2018 in musica: La Festa è Finita

Se l’anno precedente l’indie-pop italico aveva fatto il botto (leggi qui), nel 2018 era probabilmente lecito aspettarsi qualcosa di più sia a livello qualitativo che stilistico; invece l’indugiare pedantemente su una formula dapprima vincente e la foga di partecipare al banchetto del successo, ha prodotto una notevole serie di nuove proposte che non hanno lasciato alcun segno. Il tutto era prevedibile. 
Già, perché se i nomi più succosi erano usciti quasi tutti nel 2017 (Le Luci della Centrale Elettrica, Brunori, Levante, Zen Circus, Baustelle), nel 2018 si attendevano almeno due artisti (per diversi motivi) alla prova di maturità: Calcutta e Motta. In un certo senso, non hanno deluso (nonostante qualche mia grossa e personale perplessità), anzi hanno confermato le premesse degli esordio: tuttavia se Calcutta con Evergreen ha messo -inspiegabilmente- d’accordo tutta la critica senza aggiungere nulla a quanto già sentito in passato; Motta si portava a casa la Targa Tenco 2018 per il suo Vivere o Morire, virando la propria carriera solista verso una dimensione sicuramente più edulcorata del collega. Entrambi sicuramente hanno fatto bottino pieno, soverchiando la dimensione indie, ed approdando stabilmente (e senza alcuna apparente fatica) nella programmazione giornaliera delle radio commerciali.
Rimanendo sulla sponda italica, la trap ha trovato la consacrazione di pubblico (giovanissimo) e di ascolti (in streaming) grazie all’ampio risalto dato dalla stampa generalista, la musica da talent-show invece ha partorito i soliti pompatissimi beniamini; mentre l’indie-pop si è preso la terza fetta della torta grazie anche al trionfo de Lo Stato Sociale a Sanremo (per la verità arrivati secondi, ma vincitori morali) e di un concerto del 1° maggio all’insegna dei medesimi protagonisti, come a delineare una rinnovata generazione di cantastorie del precariato.
Eppure nonostante alcune conferme, la qualità della proposta complessiva rimane insoddisfacente per coraggio ed inventiva, preferendo battere il ferro sempre sulle solite trame easy-pop dai contenuti piuttosto superficiali e fancazzisti. Se il linguaggio audace e sfacciato della trap e dell’indie, è figlio del quotidiano di una società sempre più dipendente dal materialismo, neanche una turbolenta estate politica, ha mosso più di tanto le coscienze artistiche, facendo tacitamente prevalere un certo conservatorismo (per modo di dire!) ed una scarsa propensione alla critica costruttiva. Se l’apice del dissenso lo ha toccato la copertina arcobaleno di luglio della rivista Rolling Stone, allora si capisce quando infimo sia il confronto politico nel Belpaese. Sempre sul fronte delle riviste musicali, Il Mucchio Selvaggio dopo una lenta agonia partita nel 2013, dice addio alla carta stampata (rimanendo in vita solo online) dopo ben 41 anni di musica.

Little Dark Age - MGMTQuindi per cosa dovremmo ricordare questo 2018? Il rinvigorito ritorno dei MGMT (leggi recensione) con le atmosfere decadenti di Little Dark Age (summa dello zeitgeist socio-politico-musicale?), o gli Arctic Monkeys con il patinato Tranquility Base Hotel & Casino che ha decisamente diviso la critica, oppure il solido mainstream di Florence + The Machine, o i concerti show di David Byrne in Italia, o i proclami anti-Trump dei Pearl Jam? Può davvero bastare? E che ne dite della musica che sbanca al cinema, con i discutibili docu-film delle esasperazioni live dei Maneskin e Calcutta, o con il -probabilmente non necessario- film sui Queen?
Eppure gli spunti d’attualità ci sarebbero, il fermento sociale prodotto in questo scorcio di secolo dovrebbe essere terreno fertile per artisti e poeti: tra Brexit, fermenti nazionalisti in Europa (senza dimenticare le risacche terroristiche), le libertà individuali nell’era dei social-media, la criticabile politica (interna ed estera) americana, i problemi climatici e del surriscaldamento del pianeta, sono corposi e complessi temi di un presente che necessità di linee guida artistiche forti. Eppure, solo alcuni umori hanno ritratto tale senso di diffusa claustrofobia, come Julia Holter in Aviary o lo splendido Dead Magic di Anna Von Hausswolff, ma in entrambi i dischi, una certa cacofonia ed una allergia alla melodia, rendono l’ascolto non alla portata di tutti. Attanagliate da un’industria musicale che controlla ogni singolo dettaglio di un prodotto oramai destinato al mero consumo, le istanze creative e ribelli sopravvivono di stenti e costantemente (per scelta o vocazione) ai margini, accentuando così un clima di cieca accondiscendenza verso il mercato attuale. Più che da chiedersi se la musica ha perso ogni contenuto sociale, sarebbe da riflettere se questi contenuti ci sono mai stati, e che impulso pragmatico hanno dato allo svolgersi della civiltà capitalista degli ultimi quarant’anni.

Snail Mail - LushAggiungo generosamente alle più interessanti uscite del 2018, l’esordio di Snail Mail (leggi recensione), la rivisitazione di Twin Fantasy di Car Seat Headrest ed i ritorni stilisticamente opposti di Cat Power (Wanderer) e degli Idles (Joy as an Act of Resistance), quest’ultimi accompagnati da un plebiscito di critica verso un (presunto!) stato di grazia del post-punk (sempre che abbia ancora oggi senso parlare di post-punk!). Tuttavia la corona di miglior disco dell’anno va (quasi un plebiscito tra le più importanti riviste musicali italiane) ai Low con Double Negative. Decisamente troppo poco, specie in questi tempi …

Con una buona dose di lucido nichilismo posso affermare che la perdita di centralità del rock nella cultura di massa -proporzionale a quello della chitarra elettrica- sono oramai delle certezze, bisogna prenderne atto. L’indie (o independent, sfumatura non indifferente) è per natura stessa marginale, concetto che deve necessariamente entrare in conflitto con la liquidità di uno streaming sempre più ascoltato e consumato. Se i “grandi vecchi” della musica rischiano sempre meno (senza tuttavia rinunciare a rimpinguare una discografia in molti casi non necessaria), le rock-band più giovani non riescono ancora ad imporsi con continuità senza incappare in qualche passo falso: le eccezioni sono rare e spesso vivono del bene placito della critica, più che del pubblico. 
In Italia, sempre almeno un lustro in ritardo, la fine dell’indie è sancita da chi probabilmente l’aveva inaugurata: la conclusione del progetto de Le Luci della Centrale Elettrica giunge puntuale ed intelligente con un tour finale di portata nazionale. Potrei io stesso, prenderne ispirazione. Prima o poi tutto finisce. Questa parabola si è chiusa, nel bene o nel male siamo sopravvissuti, da qualche parte, marginalmente o radiofonicamente, la musica continuerà a suonare, ma non è detto che ci saranno ancora orecchi esigenti che l’ascolteranno.

La Firma: Poisonheart

 

Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.