Fernweh – Fernweh

FernwehDalle atmosfere post-apocalittiche degli spezzini Fernweh si diramano dinamiche quasi metafisiche che abbracciano tanto il kraut-rock teutonico più ispirato, quanto una polveriera di sperimentazioni tra chitarre ed elettronica. Il trio composto da Emiliano Bagnato (già conosciuto su queste pagine con il suo lavoro solista, leggi qui) Lorenzo Cosci e Daniel Leix-Palumbo, esordisce con un self-titled dalle movenze interlocutorie e rarefatte, che trovano nell’arte visiva (già peraltro anticipato da una cover-art tra Fontana e la scuola Bauhaus) uno degli sfoghi prediletti ed apprezzati. Oltre ad alcune interessanti collaborazioni (ultima in ordine di tempo il concept Utopie Radicali per Karmachina esposto a Palazzo Strozzi fino al gennaio 2018), i Fernweh proseguono la loro ricerca musicale scardinando le consuetudini armoniche del rock, per abbracciare giri più ampi e rotondi che possano collimare in una musica totale ed essenziale allo stesso tempo. Muri “sonici” vengono eretti indifferentemente dalle chitarre o dai synth, senza tuttavia essere dipendenti dai saliscendi di rumore o volume: la dinamica è perciò sottile, i movimenti sono ragionati e progressivi, affacciandosi quasi borderline ad elucubrazioni ambient.

La meccanica di Fernweh è prevalentemente strumentale -tutt’al più si abbandona a lunghissime introduzioni-, giocando sui contrasti e sulle differenze tra discese libere in riff distorti e pesantemente modulati, ed un’elettronica pimpante ma con qualche meravigliosa risacca anacronistica. Poiché se la traccia finale Jennifer è l’omaggio dovuto ai Faust ed al loro infinito bagaglio di innovazioni seventies, il resto del disco rielabora in chiave del tutto personale una sperimentazione anarchica figlia proprio di uno dei periodi più ispirati della musica dell’Europa continentale. Così tra gli iati bladerunneriani di Drift 1 e 2, s’inseriscono le frequenze elettro-funk di Ninja (uno dei brani più complessi ed intriganti del disco) ed un piccolo manifesto cut-up della band, intitolato eloquentemente Fernweh. L’architettura della composizione rappresenta quindi il cardine di un’autoproduzione ben curata, sensibile ad un certo gusto artistico naïf e controcorrente, lasciando poche speranze a melodie ridondanti, morbide ed orecchiabili.
Cinque brani compatti e densi, che s’irradiano senza confini toccando le zone più oscure della percezione musicale, vedasi ad esempio la già citata Drift che apre l’album orientando l’intera opera verso un post-rock alla Mogwai, per poi mutare completamente forma nella sua seconda parte, ove rinsaviscono sorprendenti elementi industrial e post-punk. Un’abilità del tutto particolare per i Fernweh che riscrivono con caratteri decisi fraseggi musicali penetranti e claustrofobici, e proprio per questo molto più attuali e ricettivi della maggior parte delle ballate generazionali in circolazione.
In definitiva Fernweh gira attorno ad un’idea e ad una geometria di musica ben precisa: rigorosa e fantasiosa allo stesso tempo, un po’ com’erano le dilatazioni del kraut-rock o le avanguardie progressive a cui tanto il trio s’ispira e ci appassiona.

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recensito da Poisonheart

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2 Risposte a “Fernweh – Fernweh”

  1. Grazie mille. Il disco è stato recensito qualche mese fa, ma è un lavoro che ancora ricordo con piacere. C’è profondità e coerenza nella scrittura e negli arrangiamenti, qualità che ho particolarmente apprezzato!

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