Doolittle – Pixies

A prosecuzione della golden-age Francis-Deal inaugurata con l’eccellente Surfer Rosa (leggi recensione), i Pixies confermano il loro stato di grazia compositivo in Doolittle, ultimo singulto prima dell’addio della bassista e (sempre meno) co-autrice dei brani.
Doolittle - PixiesOscuro e volitivo, il secondo long-playing dei Pixies raccoglie le precarie istanze di un independent chitarristico sempre più nell’orbita mainstream, riscritto talvolta  sotto forma di ballad scarna e minimale, talvolta vomitato istericamente tra acuti e distorsioni. Se i toni apocalittico-messianici in Surfer Rosa erano appena paventati e sciolti in uno schema alternative-pop, in Doolittle, una robusta dose di paranoia sermonica invade le liriche di Black Francis, fomentato dalle leggende sulla corrotta e lussureggiante Babilonia e da alcune letture bibliche. Espedienti perlopiù alimentati dal suo didascalico surrealismo sempre più epidermico -che esploderà definitivamente nel successivo Bossanova– e da un abile operazione di accentramento dell’intero progetto artistico, che vedrà Kim Deal relegata ad un ruolo comprimario. Avvisaglie già palesate nel tour estivo a Surfer Rosa del 1988, durante il quale Francis scrisse una consistente parte del materiale per il nuovo disco -registrato poi in autunno-, mentre Kim Deal già flirtava con i compagni di viaggio Throwing Muses di Tanya Donelly, futura partner nelle imminenti Breeders. Circostanze che tuttavia non minarono ancora l’integrità dei Pixies, che in Doolittle poté avvalersi anche dell’ottimo fraseggio di chitarra di Joey Santiago ed al drumming nevrotico di David Lovering.

Introdotto dall’omaggio surrealista verso Dalì-Buñuel (da Un chien andalou), Debaser è una scarica adrenalinica viziosa e deviata che manifesta una lieve schizofrenia rabbiosa, ma non ancora teenage agnst. Ad ogni modo sono le meccaniche psicologiche padrone-servo, dominatore-dominato ad interessare maggiormente Francis lungo gran parte del disco, in uno scenario musicale costantemente abrasivo e discontinuo, dalla furente Tame, alla singhiozzante Wave of Mutilation. Lo j’accuse cabalistico-ambientalista di  Monkey Gone to Heaven è una pura filastrocca cut-up («And the ground’s not cold / And if the ground’s not cold / Everything is gonna burn / We’ll all take turns, I’ll get mine too»), in uno schema lirico non così diverso dalla Where is my mind? del disco precedente, resa tuttavia ancora più caustica dal backing vocal della Deal nel ritornello. Dinamica ripetuta nel bubblegum-rock di Here Comes Your Man, altro grande pezzo intriso di acida isteria, inspessita anche dalle infatuazioni hendrixiane della sei corde di Joey Santiago.
Eppure in Doolittle s’insinuano anche momenti più sbarazzini ed ironici: dalla graffiante e frivola Mr. Grieves, alla ironica La La Love You nel quale Francis e la Deal -oramai alle strette- si lanciano in duetti con retorici slanci mielosi ed amorosi. Eppure quello che rende davvero tenebroso questo disco, sono le aperture di basso grevi e baritone di Dead o di I Bleed accolte da un brusio di chitarra sporco ed inconsapevolmente grungy. Nonostante uno scemare progressivo nella seconda parte del disco, Doolittle chiude in crescendo, tra le cuspidi selvagge di Silver (unico contributo della Deal in fase di scrittura), l’arrangiamento funambolico di Hey (personalmente il migliore pezzo dell’album) e la urticante litania scomposta di Gouge Away.

Forse più di Surfer Rosa, Doolittle, consolida i Pixies come miglior (e più in forma) band alternative della fine degli anni ottanta, gettando una pesante influenza su almeno una manciata di dischi grunge ed affini che usciranno nella prima metà dei nineties tra major e label indipendenti.



 

recensito da Poisonheart

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