It’s been a long time since I Rock and Rolled: La Tetralogia dei Led Zeppelin (1969 – 1971)

Dopo l’esperienza The New Yardbirds, la band formata da Jimmy Page debutta nell’autunno del 1968 con il nome Led Zeppelin ad un concerto all’Universita di Sulley a Guilford. La storia ha quindi inizio.
Qualche mese prima, a settembre, con ancora il vecchio nome ma con gli stessi componenti principali, la band prende parte ad un tour in scandinavia, dove vengono gettate le basi per il primo disco. Il lavoro in studio è una formalità e costa poca fatica, il rodaggio in tour è servito per amalgamare le diverse anime degli interpreti e fonderli in un sound unico. Infatti se Jimmy Page veniva da esperienze di eccellente turnista (collaborò con gli Stones e  Kinks solo per citare due nomi!), Robert Plant aveva una predilezione per il blues alla Robert Johnson come John Bonham (tant’è che insieme formarono i Crawling King Snakes nel lontano 1964); mentre John Paul Jones si dilettava con il basso in diverse bands di estrazione jazz.

Led Zeppelin I è un disco intelligente sin dalle prime mosse in studio. Una sorta di live agli Olympic Studios, come segretamente desiderava Jimmy Page, che evoca la forza sessuale della loro musica, nel quale blues e hard-rock si penetrano e fondono l’uno con l’altro creando un sound inconfondibile.
Good Times Bad Times è un rock avvincente nel quale sono riconoscibili tutti i singoli ingredienti: la batteria roboante di Bonham, la chitarra istrionica di Page (un assolo centrale da brividi), senza scordare il caldo basso di Jones. L’anima viene dalla voce di Plant, eppure il meglio deve ancora venire. Segue le stesse orme la celeberrima Communication Breakdown, con quell’inconfondibile intro da levare a manetta la manopola del volume. Uno dei migliori brani “brevi” dei Zeppelin.
I - Led ZepellinTuttavia, la band da il meglio di sé nelle lunghe jam blues, come per esempio la delicata Babe I’m Gonna Leave you, un complesso folk-rock arpeggiato nel quale si mostra il lato più introspettivo della band: uno dei brani più apprezzati dai fans della prima ora. L’apice arriva con Dazed & Confused uno dei pezzo storici del repertorio dei primissimi Yardbirds, anche se la paternità del brano spetta all’artista folk Jack Holmes. Riproposta da Page e soci, la canzone rappresenta l’inno lisergico hard-rock per eccellenza (nonostante non fosse nelle intenzioni di Holmes!). Non ci sono parole per descriverla, sarebbe sufficiente tacere e mettersi all’ascolto: una carica spettrale pervade inizialmente l’ascoltatore, sfumandosi in nebbia colorata che approda in pianeti sonori incredibili grazie alla tecnica di Page che perquote dolcemente la sua Les Paul con un archetto di violino. Il pathos cresce a dismisura quando Plant agonizzante, urla sconnessamente lamenti sessuali immersi nel marasma sonoro che i Zeppelin creano tutt’intorno. Lisergica o confusa che sia è una delle migliori canzoni della storia, per dirla breve!
You Shook Me e I Can’t Quit you Baby appartengono al repertorio di Willie Dixon storico bluesman, e ne riprendono fedelmente le atmosfere. Nella prima fa capolino l’armonica e persino l’organo hammond, sverniciando per così dire l’hard-rock adrenalinico del disco. Due momenti musicalmente importanti che mostrano la varietà compositiva della band, nonostante interpretino pezzi altrui (forse unica pecca dell’album!).
Black Mountain Side evade completamente dalle linee tracciate del disco e apparentemente ne rappresenta la nota meno appariscente: un esercizio folk per virtuosi ed esperti musicisti. Your Time is Gonna Come infierisce con atmosfere d’organo e di chitarra, senza tuttavia calcare la mano; mentre How Many More Times si crogiola in un rock efficace e portentoso.
Imprescindibile la cover art del disco che mostra un fotogramma in bianco e nero del disastro del celeberrimo LZ 129 Hindenburg. Pietra miliare, non si discute! Il primo capitolo dei Led Zeppelin rimane tuttavia  fondamentale per la storia della musica e della band anche se lievemente acerbo rispetto al suo successivo numero II. Cavalcano la nuova onda rock e paradossalmente chiudono un epoca: il 1969 è l’anticamera della sconfitta hippy anche se i sintomi non vengono palesati immediatamente. La musica di Page e Co. apre all’hard-rock in maniera perentoria: quindi, anche il prossimo decennio è sistemato !

All’alba degli 70s, l’America deve fare i conti con una contro-cultura giovanile  minacciosa che lotta contro il potere granitico del presidente Nixon. Le croci del Vietnam si confondono con quelle di Hendrix, Joplin, Jones e poco più tardi di Morrison: la migliore espressione giovanile del periodo.
Una nuova generazione musicale spazza via, senza troppa nostalgia, lo slancio hippye con cui gli anni ’60 si stavano chiudendo. I Led Zeppelin sono presenti e con il loro secondo lavoro sterzano decisamente verso un sound aggressivo, fatto di riff interminabili contagiati dall’heavy e di una genialità compositiva nuova e più diretta, rispetto alle dolci utopie della summer of love. Sono loro adesso i dominatori del Sunset Strip di L.A. e i colori dell’Union Jack ritornano a sedurre i giovani americani.

II - Led Zeppelin I contenuti del II zeppeliano, sono decisamente leggeri e fanno rientrare  la musica probabilmente nei binari più consoni, ossia musica con lo scopo di far musica, e non politica.
Il lato A del disco contiene la monumentale Whole Lotta Love, il cui intro inconfondibile è il marchio indelebile del sound del “dirigibile”. Orgasmica è dir poco, non solo per le innumerevoli allusioni sessuali, dalla sibillina «Way down inside honey, you need it – Im gonna give you my love», sino all’intramezzo in cui, con il solo Bonham a tenere il tempo, Plant si lancia in provocanti urla di piacere (per non dire altro!). A spezzare la tensione Page, che regala assolo di valore assoluto: ogni chitarrista deve inchinarsi a tali magie. Nel finale, il pezzo riprende i versi iniziali, lasciandosi andare in maniera ancora più spinta con «Shake for me, girl I wanna be your backdoor man» , per chiudere con la celeberrima «Keep a-coolin, baby» ripetuta all’infinito.
What is and what should never be fa riprendere  fiato, con un elegante alternanza tra parti lente e di tipica estrazione blues a repentini cambi di tempo a suon di Les Paul. Page e Jones dialogano alla perfezione nella sinuosa The Lemon Song, in cui “il limone” non ha  quel significato comunemente usato. E’  proprio questa rinnovata irriverenza a fare grande l’intero album, «I should have listened, baby, to my second mind» è tutto un programma. Tutti quei proclami di amore libero figlio degli anni ’60 sono buttati nel cesso dai Led Zeppelin, non solo grazie a geniali trovate liriche, «Squeeze me baby, till the juice runs down my leg», ma pure ad  ottime soluzioni musicali, con un rock ispirato, pesante al punto giusto e spruzzato da quel proverbiale blues che perfettamente si lega alle trame dei 4 inglesi. I ritmi si abbassano con la delicata Thank you: ottimo Plant e un intro melodico ben costruito.

Girando il vinile la puntina scorre su pietre miliari come Heartbreaker e Ramble On: impossibile non farsi trascinare nel loop zeppeliano, fatto di riff energici e coerenti e da una straordinaria carica vocale. Apprezzabile quel meraviglioso mix di chitarra e batteria: un fiume in piena che travolge tutta la retorica hippye.
Livin’ Lovin’ Mad non tradisce la struttura dell’intero album: si presenta fresca e da ballare, sembrerà paradossale ma è proprio così! Istrionica Moby Dick merita un discorso a parte: veleggia tra un blues redivivo e un rock promettente, senza mai perdere la rotta durante il suo intricato viaggio. Sorretta da ottime linee di basso e con uno spazio tutto per  Bonham, che vi piaccia oppure no, il miglior batterista di sempre. A legarsi nel finale il blues cobalto di  Bring it on Home.

Verso la fine del 1969 si chiude il fortunatissimo e altrettanto faticoso tour negli States, nel quale i Led Zeppelin seppelliscono letteralmente il Sunset Strip con il loro hard-rock sessuale, facendo impallidire gli ultimi superstiti della Summer of Love. Agli inizi del nuovo decennio, Page e Plant si rinchiudono nel cottage di Bron-Yr-Aur, per staccare un attimo la spina e trovare l’ispirazione nella pace delle campagne gallesi. L’idea di rinnovamento nel sound complessivo della band è molto forte:  se il I disco dei Zeppelin aveva palesi influenze blues, e il II invece rappresentava l’esplosione dell’hard rock, il terzo capitolo necessitava di atmosfere più calme e meditative.

Led Zeppelin III è l’antitesi per suo predecessore, suona maledettamente rock-folk senza tuttavia perdere la grinta, lo smalto, nonché la forza compositiva dei primi due. Certamente è un album meno altisonante dei precedenti, nei toni specialmente e questo lascia il fianco scoperto alla stampa specializzata che non coglie le vere intenzione della band e la sommerge di giudizi tiepidi. È oltremodo vero che questo disco raccoglie canzoni più introspettive e forse meno famose rispetto ad altri successi dei Zeppelin. Immigrant Song è probabilmente quella più conosciuta e apre magnificamente il lato A con un rock austero ma efficace. Composta durante una tappa europea in Islanda, narra delle vicende di Leif Ericson, il primo esploratore europeo a scoprire l’America settentrionale (o meglio l’attuale Canada); mescolando le inconsuete analogie tra passato e presente e le diverse prospettive tra conquistatore e terra conquistata: «So now you’d better stop and rebuild all your ruins, For peace and trust can win the day despite of all your losing».

III - Led ZeppelinIl folk si sente a chiare note solo nella seconda canzone del disco, la pacata ed orientaleggiante Friends, di cui la paternità spetta al John Paul Jones per la sua trama di basso portante. Il finale di quest’ultima conduce all’intro di Celebration Day: una delle migliori tracce dal sapore agrodolce, nel quale Plant canta in toni lievemente malinconici di una sorta di addio o partenza. Alcune immagini fanno riferimento a New York, ed infatti non di rado nei live la canzone veniva annunciata come “The New York Song”.
Il contributo più emozionante lo si può ascoltare in Since I’ve Been Loving You, una lunga jam nel quale il blues fuoriesce dai propri confini ed invade con calore ed intelligenza l’orecchio dell’ascoltatore, che rimane inebriato dagli assolo di Page o dal conturbante organo hammond suonato da Jones. Un brano intenso e viscerale come pochi. Chiude il lato Out on the Tiles, rigurgito nervoso di hard rock appena sussurrato.
Il lato B suona molto più lineare e si attesta alla linea folk del disco. Gallows Pole è una ballata classica (nota anche come The Maid Freed from the Gallows) che racconta di una ragazza condotta all’impiccagione che cerca di dissuadere il  boia dall’estremo gesto. Tra le numerose varianti si ricordano anche quelle di Leadbelly e di Bob Dylan.
Tangerine e That’s the Way assaporano un retrogusto mediterraneo grazie anche all’accorgimento del mandolino e della steel guitar. Frutto delle sessioni in Galles è Bron-Y-Aur, una ritmata ballata d’altri tempi nel quale la componente rock è completamente annichilita. Si chiude con Hats Off to (Roy) Harper palese omaggio al musicista folk Roy Harper, nel quale Page e Plant si lanciano in una jam intensa ed intrisa di tremoli acustici.

Il numero III dei Led Zeppelin è un disco pacato ed intelligente che solo nel secondo lato mostra il suo progressivo distaccamento dal vizietto hard-rock. Un lavoro ben fatto ed emozionante, imprescindibile per quello che sarà il successivo, il fatidico numero IV. Non facile all’ascolto immediato, quindi consigliato solo agli amanti del folk o ai fans più fedeli, che vi diranno certamente che questo è un gran bel disco … alla faccia della critica musicale che non c’ha mai capito nulla a riguardo !!!

Verso la fine del 1970 i Zeppelin stanno lavorando all’atteso quarto album. L’album perfetto. Almeno nelle intenzioni di Page. La band è all’apice del successo, tuttavia la stampa li dedica spazio relativo rispetto ad altri nomi importanti, nomi che venivano dal decennio precedente. I Led Zeppelin si rivolgevano ad un pubblico giovane e a quell’epoca le riviste musicali erano poco ricettive verso una tendenza che oggi definiremmo normali. Quasi nello stesso periodo Page coltiva assieme alla band la passione per le pratiche esoteriche e mistiche, e già nel III comparivano tra le pause del disco misteriose frasi di origine occultistica. Inoltre, acquista la Boleskine House, celeberrima dimora appartenuta ad Aleister Crowley con vista su Loch Ness in Scozia. Quindi non stupisce l’aura sinistra con il quale il disco viene registrato.

Innanzitutto, per realizzare il disco perfetto, la band decide di non far comparire alcuna scritta sul fronte del vinile e successivamente azzera le attività di promozione e pubblicità, in una sorta di battaglia personale contro la stampa che aveva li definiti “rammolliti” dopo il terzo disco. Il nuovo lavoro dei Led Zeppelin, noto come IV o anche come ZoSo (derivato dai 4 simboli  che rappresentano i componenti della band) quindi non è solo un album misterioso, è soprattutto intriso di una maturità sonora e compositiva impressionante (ricordiamo che nel 1971, anno di uscita del disco, Page ha solo 27 anni!!!). Aver registrato tre album con delle rispettive peculiarità in meno di quattro anni è segnale di una varietà musicale decisamente fiorente, una sorta di ricerca del suono più congeniale, più armonico, che potesse avere un anima blues, con reminiscenze folk ed un impatto decisamente hard-rock.

IV - Led ZeppelinIl lato A ruggisce con Black Dog un rock-blues dalle tinte forti costruito su un bridge ammiccante nel quale la batteria aggredisce la chitarra acida di Page e il basso compatto di Jones. Segue Rock n Roll un ballabile blues suonato come da tradizione in 12 bar (riprende due classici come Keep A-Knockin di Little Richard e Something Else di Eddie Cochran), inoltre è chiarissimo il ritmo impresso dal pianoforte suonato per l’occasione da Ian Stewart. The Battle of Evermore richiama lungimiranti atmosfere medioevali e celtiche, grazie al mandolino e alla seconda voce di Sandy Denny dei Fairport Connection. I temi riprendono le passioni di Plant per la letteratura che oggi definiremo fantasy, come J.R.R. Tolkien e Lewis Spence. Ispirata ai Magic Arts in Celtic Britain di quest’ultimo, inizia inconfondibilmente Stairway to Heaven. Non ha bisogno di spiegazioni né traduzioni, nemmeno per citare alcuni riferimenti satanici (ascoltando il brano al contrario attorno al quarto minuto). Uno degli assoli imprescindibili della storia della musica: dovrebbero insegnare queste cose nei conservatori musicali!!!
Il lato B esordisce con Misty Mountain Hop un bubblegum-rock con infatuazioni blues. Un poco meglio la torbida e ansimante Four Sticks, nel quale Jones prova il sintetizzatore e Bonham suona con 4 bacchette, tuttavia lascia una traccia più marcata il folk acustico intenso di Goin’ to California dal sapore agrodolce.
Chiude il funambolico blues di When the Levee Breaks nel quale l’armonica ha il merito di aumentare la tensione del brano. Originariamente scritto da Memphis Minnie, una delle più influenti cantanti country-blues, e arrangiato nuovamente da Page e Co, manifesta l’intatta abilità della band di cimentarsi in lunghe jam articolate ove il pathos cresce anche senza dover abusare della potenza degli amplificatori.

Nonostante la scarsa promozione, il disco consacrò il Led Zeppelin come artisti veri ed invincibili. Tuttavia questo è anche l’ultimo capitolo glorioso, le infatuazioni esoteriche di Page, assieme al crescente successo di pubblico (come non citare il concerto evento all’Earl’s Court di Londra del maggio ’75) porteranno l’intera band lentamente verso un oblio magico ed oscuro. Un disco fondamentale come pochi: e che nessuno si azzardi ad affermare con sufficienza che IV è solo l’album con Stairway to Heaven. Guarite la vostra ignoranza con il disco perfetto. O quasi perfetto!


La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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