1977: Quarant’anni di punk tra New York e Londra

«Nell’estate del 1977, il punk era ormai una parodia di se stesso. Molti fra gli esponenti originari del movimento avevano la sensazione che un fenomeno aperto e pieno di possibilità fosse degenerato in una formula commerciale».
Quest’anno corre il 40esimo anniversario dall’uscita di una foltissima schiera di dischi punk, dai Ramones ai Sex Pistols, passando per le avanguardie musicali di Television e Talking Heads ed arrivando fino a Brian Eno ed al monumentale Before and After Science.
1977 punk
Tuttavia il fenomeno punk in senso stretto, già nel 1977 mostrava sottili ma evidenti segnali di declino, complice soprattutto il successo mediatico riscosso in Terra d’Albione dai Sex Pistols, che decisero di festeggiare il giubileo d’argento della Regina suonando su una chiatta nel Tamigi la blasfema God Save the Queen. Giornali e media (compreso Malcolm Mclaren, mentore dei Pistols) non aspettavano altro per imbastire ed oliare una macchina commerciale che avrebbe stereotipato il punk e la libertà artistica di cui si faceva promotore. Certo, i Sex Pistols ruppero i canoni europei della musica giovanile, enfatizzando una crisi di valori che era soprattutto economica e di classe (un cieco rigore conservatore che avrebbe anticipato il thatcherismo più opulento) e che aveva portato picchi di preoccupanti disoccupazione e di impoverimento generale dei ceti proletari. Band si formavano e si scioglievano con una velocità pazzesca (spesso senza lasciare traccia), portando nel carrozzone punk personaggi che poco avevano da spartire con gli ideali punk delle origini.

Situazione diametralmente opposta a New York ove il punk in fin dei conti nacque; la percezione del successo fu quantomeno lontana dall’esplosione inglese. Nel gennaio del 1977 i Ramones pubblicarono il loro secondo disco, Leave Home, bissato qualche mese più tardi da Rocket to Russia, e suggellando una storica trilogia punk che divenne fonte di ispirazione per la maggior parte delle band inglesi. Eppure quel movimento di giovani disadattati dai vestiti strappati, di bohémienne depravati, di tossici senza grosse prospettive, si muoveva in uno spazio infinitesimo e ristretto a due club: lo storico C.B.G.B’s  di Hilly Kristal  ed il Max Kansas City tempio del glam-rock newyorkese;. ove suonavano regolarmente Johnny Thunders, Richard Hell, i Blondie o i Dead Boys di Stiv Bators. L’attività live era di fondamentale importanza per la diffusione di quella musica sgraziata e poco professionale, specie perché la cultura del 45giri non era così forte come in Gran Bretagna, avendo un mercato non così omogeneo da soddisfare: Born to Loose e Blank Generation divennero gli inni più rilevanti di quel senso di sconfitta di una generazione sostanzialmente nichilista ed autodistruttiva. Johnny Thunders dalle macerie del glam-rock delle New York Dolls, fondò con Jerry Nolan gli Heartbreakers pubblicando nell’ottobre del 1977 L.A.M.F., mentre Richard Hell uscito dai Television di Tom Verlain pubblicò con i Voidois il mitico Blank Generation: entrambi i dischi non hanno nulla da spartire con quello che comunemente è definito punk (se non forse per la velocità ed i tre fatidici accordi), trovando invece grande ispirazione dal rhythm blues ereditato dai primi anni ’70 e dal funk. Quello stesso autunno i Dead Boys con Young, Loud and Snotty  ristrutturavano il granitico e vivace Hey ho let’s go dei Ramones con un punk più articolato ed istrionico, confermando la tendenza newyorkese di battere nuove strade musicali, vedasi art-punk poetico di Marquee Moon dei Television o il psicotico esordio  Talking Heads 77 della band di David Byrne, aprendo già la rigogliosa -ma poco conosciuta- stagione del post-punk. Lo spazio temporale tra l’uscita di tutti questi dischi è davvero sottile, eppure molti di questi (oggi pietre miliari) passarono inosservati al mainstream musicale, anche a causa di quanto stava accadendo a Londra; a titolo d’esempio si pensi ai Ramones che nel 1979 dovettero affidarsi alla produzione di Phil Spector per entrare in punta di piedi nelle charts americane, snaturando il loro fugace bubblegum.

Nel 1976 Anarchy in the U.K. aveva gettato le basi per la rivolta, confermata nella primavera del 1977 da White Riot contenuta nell’omonimo esordio dei Clash, eppure già nella seconda metà del 1977 l’interesse mediatico era talmente pressante da portare il No Future lydoniano ad essere nel giro di pochi mesi nient’altro che uno slogan su una maglietta. La mercificazione del punk (spillette, creste, giubbotti in pelle, ecc…) e la sua decontestualizzazione dall’ambito sociale proletario, portavano persino l’adolescente della mid-class ad abbigliarsi secondo la moda del momento, ignorando tutta la rabbia sociale (e personale!) che le band punk della prima ora mettevano nella propria musica. L’uscita di Nevermind the Bollocks il 28 ottobre 1977  in qualche modo simboleggiava il punto di discesa del movimento stesso, che culminò il 14 gennaio del 1978 con lo scioglimento dei Sex Pistols dopo un concerto a San Francisco. Un disco fondamentale, ma che in realtà fungeva da mera raccolta di singoli da esportare nelle grandi catene di distribuzione, senza grosse intuizioni musicali o messaggi generazionali da comunicare, che andassero oltre la provocazione e le minacce paventate. 
Joe Strummer ed i Clash promuovevano un’alternativa al nichilismo lydoniano, tra dettami politici ed ribellioni sociali dai contenuti più consistenti, e non fu un caso che la band col passare degli anni si sia distanziata dalle sonorità punk, abbracciando (specie con London Calling 1979) forme di funk, reggae e world-music. Se una delle grandi capacità del punk fu la libertà di espressione nelle forme più disparate e geniali, trovando successivamente nel do-it-yourself e nelle sue infinite derivazioni uno stile di vita; il limite di tale libertà stava nell’ortodossia verso tutto quello non era strettamente in linea con l’ideologia punk: atteggiamenti d’avanguardia o artistoidi, per non parlare dell’uso strumentale di tastiere e synth (ritenuti legati al tanto odiato prog-rock), tecnicismi o venerazioni al rock sixties erano da considerarsi degli abomini dinanzi alla rigida condotta punk.
Eppure nel 1977 uscirono anche quattro dischi partoriti da uno dei più importanti periodi musicali europei: il soggiorno berlinese di Iggy Pop e David Bowie sfornò rispettivamente il cavernoso The Idiot e l’isterico Lust for Life da una parte, ed il misterioso Low ed il crepuscolare Heroes dall’altra. Tastiere (il mitico minimoog di Eno), strategie oblique, minimalismi strumentali, erano alla base di questi monumentali lavori di cui il punk era assuefatto ed inconsciamente orbitante, trasformandosi nel biennio successivo -nei casi più eclatanti-, dapprima in post-punk d’avanguardia e poi nella più radiofonica e variegata new-wave. L’interesse musicale delle major e quello commerciale dei media, avevano reso il punk una moda a 360°, abbassando via via il livello qualitativo della proposta, anche dopo la fine dei Sex Pistols. Solo la morte di Syd Vicious (il 2 febbraio 1979) sancì l’epilogo incontrovertibile del punk, perdendo per sempre l’icona più stereotipata di un movimento svuotato dai suoi principali capostipiti. In quel periodo Johnny Rotten aveva fondato i PiL, i Ramones si apprestavano a registrare un disco pop (End of the Century), i Clash avevano già sviluppato sonorità più ampie che sfoceranno nel triplo Sandinista! (1980), mentre dietro scalpitavano una lunga lista di band (dai Joy Division ai Bauhaus) che presero alla lettera la lezione berlinese di Bowie, superando le velleità punk ed sperimentando una maggiore libertà artistica. 
Se pare quantomeno rivoluzionario asserire che già nel 1977 il punk fosse in declino, considerando che nell’immaginario comune è l’anno punk per antonomasia, (se non altro per le uscite discografiche sopra elencate); c’è chi provocatoriamente afferma che già i primi sintomi della disfatta si avvertivano nel 1976, quando Clash e Pistols iniziavano ad esibirsi al 100 Club di Oxford Street. E a continuare così sembra di fare un esercizio di disfattismo verso un movimento che ha segnato il punto di rottura con il rock pomposo e cervellotico degli anni settanta, concedendo un’occasione artistica a chi mai si sarebbe avvicinato alla musica, se non fosse per alcuni dei dischi qui citati. Differenti modi di esprimersi -dal nichilismo newyorkese, all’irruenza londinese- che hanno fornito successivamente una base di partenza per l’evoluzione musicale a partire dal 1978: da sfumature avant-garde (pensando alla no-wave del Lower East Side) ad esperimenti new-wave in Europa. Il meccanismo mainstream e delle major più influenti ha sempre continuato a girare, indipendentemente dal genere o dall’epoca; che il punk sia stato eccessivamente strumentalizzato dai media è indubbio, ma far passare tutto il movimento come una vuota moda commerciale mi pare quantomeno ingiusto, nonostante il confine tra genuino e “costruito” sia stato -anche in questo caso- piuttosto sottile!

A cura di Poisonheart

 

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