7 Grabs – Homesick Suni

Mi ero ripromesso di non cascarci più, di non riprendere le redini di questo spazio recensioni. Ma poi, arrivano dischi così che rimettono in moto la curiosità, che trasmettono quella vibrazione che risolleva più di qualche frustrazione. Non potevo lasciare che fossero solo “gli altri” a parlare di 7 Grabs, esordio in Pipapop Records di Homesick Suni, volevo e dovevo farlo pure io, e non solo per promessa da mantenere. Nonostante non ricordassi se per prassi nella testata delle recensioni di questo spazio andasse prima l’album o il suo autore, riprendo a scrivere della musica che viaggia su canali differenti, quelli indipendenti, quelli di cui ogni volta -pazientemente- devo chiarirne i contorni e l’etica.
7 Grabs Homesick SuniHomesick Suni l’ho visto per la prima -ed unica, ma è solo colpa mia!- volta qualche anno fa, in una location non proprio indie -però dai, a modo suo lo era un pochino-, chitarra acustica in mano e quella chioma disordinata che non puoi non associarla al Dylan post-Newport. Chissà, forse quella serata (live report presente in questo spazio, non ne ho fatti molti, cercatelo) è stata un po’ anche la Newport di Homesick Suni, almeno nel mio meraviglioso immaginario dove anche i minimi dettagli sono un evento. Ed in quella sera a ben pensarci ce n’erano almeno un paio. Era il periodo di Appetite for Distraction (2017) e le ballate che eseguì donavano agli ascoltatori reminiscenze sixties, ma riducendo tutto all’osso, all’essenziale, interpretando parte del suo repertorio per sottrazione, lasciando tuttavia congelata l’enfasi para-psichedelica. Ecco dunque, approcciandomi a 7 Grabs la mia sorpresa è stata totale nell’estetica dei sette brani, mantenendo – e di questo gliene sono grato- inalterate le radici delle canzoni, il modo di comporle, di farle uscire spontaneamente. Dinamismo, stratificazioni stese con intelligenza lungo influenze che mescolano come in un puzzle caleidoscopico jazz, r’n’b, soul, tenute insieme dal solito mastice indie-folk, mai e poi mai rivisitato o rivisitabile. Ne consegue una macedonia equilibrata di vibrazioni, di sulfurei motivetti liquidi, esaltati da un wah-wah ogni tanto, da un eco che parte e ritorna quando gli pare, facendo il giro del mondo tra suoni, umori, sensazioni, esplorando molto, ma accettando con riserva l’aspettativa di esplorare nuovamente e più in profondità alcuni momenti, fino magari al non ritorno. Talkin’ bout it è la festa di suoni sopra descritta, concedendosi pure il vizio di jammare nella sua propensione da vivo: è la freschezza -e la consapevolezza di esserlo- a rendere accattivante l’ascolto, come in Wouldja Spend the Night ?, che fa il verso garbato ad un funk volitivo e glitterato.

7 Grabs è anche un lavoro corale costruito su intuizioni e sperimentazioni, così a coadiuvare Homesick Suni in questa avventura, la squadra Pipapop -posso chiamarla così?- composta dalle soluzioni melodiche di Dnezzar e Charles Wallace oltre alla supervisione del timoniere di casa Capitano Merletti. Mutue influenze che si fanno più intense in alcuni episodi del disco, specie quando il synth s’inserisce obliquo lungo le armonie Venice Mathemathics, aumentandone lo spessore stilistico; mentre in altri (A Piece in A) sono i ritardi circolari e gli eco ad elastico a rincorrersi in un intramezzo strumentale su cui si possono snodare infinite direzioni musicali. Homesick Suni rimane ancora fedele alla psichedelia-pop sixties -il primo amore non si scorda mai-, se ne apprezzano le calcificazioni nella ballata Sommersault nata dalle ceneri del pezzo precedente e portatore di quell’agrodolce humor lennoniano di cui è impossibile slegarsi se si amano senza rancore i Fab Four. 

Cantore libero nelle sue dispari assonanze, in Homesick Suni cresce sia la personalità dell’interprete che quella del compositore, confezionando uno swing come Methereopatic Lady, che si genuflette all’improvvisazione senza abbandonare le sue aspirazioni indie. Le influenze jazz sono particolarmente accentuate in 7 Grabs, senza il rischio di rimanere invischiato in manierismi di genere; anche la conclusiva Mole plana su minimali giochi di sax e piano, rimanendo pur sempre con i piedi per terra.
Eppure quello che vorrei che risaltasse in questa recensione, abbraccia non solo il disco in sé -enorme, sorprendente, lo ribadisco-, ma la missione che Pipapop Records intende intraprendere, non limitandosi a rimpinguare il proprio catalogo con un’altra testimonianza dell’indie veneto. E’ la cifra stilistica che l’etichetta vuole perseguire -coerentemente con l’esplosività dei poster di Lothar-Günther Buchheim, da cui la label prende il nome- uscendo dalle definizioni commerciali di musica indipendente, aprendosi ad influenze a più ampio -ampissimo- respiro, convergendo verso esperienze di produzione cesellate, affinate con una cura direi quasi artigianale. E’ la corretta prospettiva con cui le piccole label indipendenti devono approcciare, la qualità e la parsimonia di seguire un artista -ed amico- nel suo percorso artistico, senza testardamente ansimare per un next big thing che probabilmente non arriverà mai. L’indie con la sua nomea popolana, sbagliata e scapigliata ha concluso la propria onda commerciale -risacche incluse-: etichette come Pipapop lo hanno sempre saputo ed hanno agito con un piano artistico lungirimirante e ben definito, fregandosene del resto. Questo si chiama essere indipendenti!

Homesick Suni facebook
Homesick Suni bandcamp
Pipapop Records facebook

 

recensito da Poisonheart

 

 

 

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