Plainn – Plainn

Qualche mese fa ebbi la fortuna di ascoltare in anteprima questo omonimo esordio di Paolo Brusò (aka Plainn), con l’occasione presi qualche appunto, impressioni d’istinto, quelle che di solito si perdono nei meandri di tanti altri pensieri. Ho recuperato e confrontato quegli appunti con il rinnovato ascolto autunnale, in concomitanza con l’uscita ufficiale per Pipapop Records. Forse oggi scriverei parole diverse, nonostante permanga quel sentimento di libertà assoluta, di voglia di ricominciare e di rimettere tutto in gioco. Quindi sì, l’album ha effettivamente scombinato le mie impressioni dell’epoca, le ha rimesse in discussione, trasferendo all’ascoltatore tratti di quell’ispirazione che aveva generato i nove brani contenuti in Plainn.
Plainn Paolo BrusòOggi, più che il minimalismo di chitarra e voce, è l’esaltazione di quei bozzetti armonici (A Part of You è un lampante esempio) che con effetto domino si appiccicano come figurine su vecchi ricordi e sensazioni che parevano dimenticate. Atmosfere asciutte e pacate che non lasciano entrare alcuna forma di nostalgia, tele melodiche fameliche di vita, intrise di passione, che emergono con vigore, prendendo forma concreta ad ogni ascolto. Plainn lavora su una invidiabile forma di disillusione che non ammette rancori e rimpianti, guarda avanti, oltre l’orizzonte, conscio delle proprie cicatrici, delle proprie brutture. Senza scomodare dinamiche repentine o effetti ad orologeria, la composizione rimane legata all’istinto ed alla sincerità, la stessa del prendere la chitarra in mano e strimpellare flussi di coscienza che non si ripeteranno mai più. Da una parte il gesto è legato all’esigenza ed onestà di esternare, dall’altra la rigorosa precisione di suoni e parole, soppesati e meditati con molta cura, oltre i loro apparenti significati, oltre la superficie. Un folk emotivo, auto-lenitivo, limpido nelle timbriche, lineare nell’evoluzione: Sins, My Star o Again sono tra i brani che maggiormente avvolgono l’ascoltatore in una morsa empatica e ricca di enfasi.
Ciascuna ballata è un lento crescendo, la cui armonia si adagia spesso su riff che ricordano/richiamano la Natura: il gocciolare dolciastro di Child, o le soffiate di pianoforte in Take Care, o lo strisciante arpeggio di Plains. Espedienti che denotano il legame profondissimo con gli elementi naturali, esibito sin da una cover art (di Laura Paneghetti) la cui staticità è perentoria, eppure animata allo stesso tempo da quel senso di infinito e di irraggiungibile che talvolta comprime l’anima ed il cuore, facendoci sembrare terribilmente piccoli, definitivamente fragili dinanzi a forze regolate da leggi cosmiche.

Innegabile è il carattere personale di questo esordio: Plainn è l’istantanea lunga un pezzo di vita, il candore dell’alba e la tenerezza del crepuscolo. La sua diversità/estraneità alle consolidate meccaniche indie-pop, oltre a rendere l’album diretto ed esplicito, espone anche il coraggio di un giovane autore che racconta di sé, delle proprie sicurezze/insicurezze, senza per questo giocare sulla banalità delle esperienze comuni, senza annotare affinità o divergenze tra noi e qualche sbiadita generazione precedente. Paolo Brusò suona e canta musica per l’anima, un po’ per se stesso, un po’ per chi ha voglia di ascoltarlo. Educatamente, come Madre Natura ci aveva insegnato.

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recensito da Poisonheart

 

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