Sometimes I sit and think, and sometimes I just sit – Courtney Barnett

Come ha detto Carlo Bordoni, Courtney Barnett è come la migliore amica con cui andare ai concerti o passare i pomeriggi nei negozi di vinili. La giovane australiana si presenta così com’è, con tutta la sua carica ironica (spesso pure auto-ironica) e la sua maniera di raccontare piccole storie in questo capolavoro del 2015: Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I just Sit.

Sometimes I sit and think and sometimes I just sit - Courtney BarnettSpudoratamente anti-diva ad una disattenta analisi: capelli in disordine, ghigno paffutello e vestiario sempliciotto, la solita australiana campagnola! Eppure la sua musica mostra il carattere e la sostanza che supera le stupide apparenze, mettendo insieme un folk moderno in una formazione chitarra-basso-batteria che suona come nelle migliori intenzioni indipendenti degli anni ’90. Coadiuvata da Dave Mudie (percussioni), Dan Luscombe (chitarra) e Bones Sloane (basso), Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I just Sit rompe decisamente con l’andazzo di un rock barocco ed vacuamente elettronico, spostando l’attenzione su una formula più semplice e lo-fi, intercalando (con un acume compositivo stupefacente) storie di gente comune in situazioni comuni. E’ il mondo di Courtney Barnett (già anticipato nelle intenzioni dalla geniale cover-art), in cui la genuinità delle cose si anima e la vita stessa viene presa con ironia, tra lacrime, sorrisi e risate: una festa buddhista, una meditazione parlata ad alta voce.
La deriva del grunge tocca le sponde d’Australia venticinque anni dopo, comunicando in un modo non troppo diverso, ma con rumori e dinamiche abbastanza lontane dai ruggiti di chitarre oramai arrugginite. Se i primi lavori di Courtney Barnett portavano la dote di una songwriter seria e riflessiva, nell’esordio in long-playing si traccia una rotta più naturale e coraggiosa, mostrando la grande vena creativa di una ragazza che la musica la sa fare. E’ la dovizia di particolari nelle descrizioni dei personaggi di questo album che a volte sorprende; testi molto lunghi ed elaborati, tra slang ed azioni lasciate ad intendere; eppure da un primo ascolto questi indizi sfuggono via. Il cantato impastato di Pedestian at Best, che si svolge come un lungo, ironico e scanzonato monologo nel quale si può apprezzare tutta la capacità compositiva della giovane artista, che non tira mai il fiato e spara più cartucce possibili; il chorus è qualcosa di davvero ben riuscito, un po’ rabbioso, un po’ delirante:

put me on a pedestal and I’ll only disappoint you
tell me I’m exceptional and I promise to exploit you

give me all your money and I’ll make some origami honey
I think you’re a joke but I don’t find you very funny

Elevator Operator invece apriva il disco con la vicenda di un ragazzotto che sbotta verso quel suo lavoro d’ufficio da yuppies sognando una ben più soddisfacente vita da fattorino dell’ascensore. Il paradosso è spietato ma buffo e bizzarro in quel cantato appassionato di Courtney Barnett sullo sfondo di un folk metropolitano senza tanta morale da spartire. Eccolo il primo assaggio del mondo di Courtney Barnett: piccole storie, ma elaborate con la cura nel delineare le figure grottesche di cui si anima il disco (vedasi la descrizione della signora incontrata dall’aspirante fattorino all’ingresso dell’ascensore), in quello slang masticato veloce e sputato via altrettanto rapidamente.
E’ peraltro molto interessante come le faccende quotidiane raccontate portino in seno anche un velo di allegorica fantasia fanciullesca, quasi come le digressioni mentali di un qualsiasi personaggi nati dalla penna di Seth MacFarlane.

In An Illustration of Loneliness (Sleepers in New York) o in Depreston (meraviglioso il gioco di parola tra Preston e Depression), velocità e tonalità diverse ci raccontano anche il paradosso del dolore e della solitudine. In quest’ultima particolarmente geniale nel quale la ricerca di un alloggio affitto cela un sordido (ma molto pudico da parte di Courtney) sbirciare nelle case altrui. Sezione ritmica e chitarra disegnano trame molto improvvisate, per consentire la resa al meglio del cantato, vedasi nelle atmosfere slide di Small Poppies nel quale si crea un intimismo quasi jazz, e senza tuttavia essere troppo patinato nei suoi quasi 7 minuti, appare come uno dei migliori brani del disco.

Meritano attenzione Dead Fox, nel quale la scusa di una spesa al supermercato con un’amica diventa una esilarante critica all’eccessivo salutismo vegetariano (Jen insists that we buy organic vegetables / And I must admit that I was a little skeptical at first / A little pesticide can’t hurt); e soprattutto la maestosa Kim’s Caravan con quelle sensazioni d’abbandono come quel corpo di foca arenato nel bagnasciuga della spiaggia di un Sunset Strip (Courtney però precisa subito, I was walking down Sunset Strip, Phillip Island, not Los Angeles).
Aqua Profunda! invece si presenta fresco tra giri di chitarra orecchiabili e grugniti sporchi figli di un rock indipendente che non vuol crescere; è questo uno dei segreti della riuscita di questo meraviglioso Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I just Sit; un legame non troppo mascherato con l’underground di classe 1990, che però mantiene le dovute distanze dall’emulazione e dalla volontà di parlare a delle generazioni.
Semmai Courtney Barnett parla a sé stessa, poiché in ogni lirica di questo disco c’è oltre ciò che si vuol raccontare, portando l’ascoltatore a vedere le cose sotto la lente d’ingrandimento della giovane cantautrice per vedere con i suoi stessi occhi quel suo mondo fatto di cose buffe, un po’ serie e tanto tanto bizzarre.

recensito da RamonaRamone
M_Ramona Ramone

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