Skeleton Tree – Nick Cave and the Bad Seeds

Forse Skeleton Tree non si sarebbe mai colorato così intensamente dei significati che ha invece assunto dopo il luglio 2015, quando durante le registrazioni di questo disco, il terzogenito di Nick Cave cadde da una scogliera nei pressi di Brighton (presumibilmente sotto l’effetto di lsd). Eppure il sedicesimo disco in studio del songwriter australiano accompagnato dagli immancabili Bad Seeds, non è solo l’elaborazione di un lutto troppo grande da accettare o un requiem mesto e dalle cadenze funeree. Skeleton Tree è la dignità di un padre che sopravvive al figlio e con quel che resta della vita cerca di guardare avanti, interrogandosi sulla morte e sul destino, senza pose retoriche o rapidi e prevedibili fili conduttori. Ascoltando attentamente questo disco, depurandolo -con grande fatica- dai riferimenti scontati di tale tragedia, è possibile comprendere l’atmosfera e talune sonorità fossero già nelle corde di Nick Cave e dei Bad Seeds, come naturale prosieguo di Push in the Sky Away (2013).

Dalle cadenze blakeiane e dagli echi cavernosi si presenta Jesus Alone, una lenta discesa negli inferi del dolore, che senza troppe parafrasi apre con «You fell from the sky crash landed in a field near the river Adur» (il fiume Adur è vicino a Brighton), il minimalismo armonico è sinistro ed intriso di una tensione bieca e lancinante e trova nella voce rotta e gutturale di Nick Cave la cerimonia funebre perfetta. Archi barocchi e spenti piangono malinconie di cui è possibile estrarre la purezza dello strazio di un uomo che si interroga sulla tragedia in sé, e di riflesso (anche se non troppo esplicitamente) sul proprio rapporto con la religione: il chorus ripetuto nel finale «With my voice I am calling you» sembra appartenere alla dimensione della dolce e cinica preghiera che non troverà mai risposta.
Nick Cave and the Bad Seeds - Skeleton TreeLa successiva Rings of Saturn mantiene costante una tensione che scorre sottopelle, ma lo fa con un approccio completamente diverso, sia nel cantato -molto più romanzato e rapido-, sia nelle armonie aperte a suoni più vivaci ma sempre dilatati nel tempo; i cori (o altresì ululati) piazzati lungo questi versi intrisi di parole ed immagini che prendono dalla natura l’essenza primigenia, regalano brevi pause ad uno scorrere vocale non dissimile ad un moderato rap, che nel chorus termina con un eloquente «This is what she does and this is what she is».
Il piano dell’immancabile Warren Ellis soffia delicato e romantico su Girl in Amber, per una ballata dimessa dedicata alla meravigliosa Susie Bick («Girl in amber trapped forever, spinning down the hall») moglie di Nick Cave, che con tono graffiate ed etereo esprime tutta la propria poetica visionaria; Magneto ed quel suo passo misantropo, si muove in direzione di echi e soffi di suono che decomprimono qualsiasi armonia appena udibile in sottofondo, mentre monta una riflessione dolorosa verso il personale rapporto con una spiritualità forse mai davvero compresa («My monstrous little memory had swallowed me whole / It was the year I officially became the bride of Jesus»), ma che declama in qualche modo amore. La ricchezza della sezione ritmica (Jim Sclavunos in stato di grazia) ricercata in Anthrocene è magnifica e raffinata allo stesso tempo, i cori in background cristallizzano le spinte più acute nelle tonalità di Nick Cave, mentre un pianoforte in lontananza detta i tempi come un arbitro in penombra.

I Need you
è una lacerante preghiera diretta e schietta composta poco dopo la tragica fatalità del luglio 2015; la sopravvivenza alla tragedia si fa fisicamente soffocante, ed insopportabile diventa il pensiero di come vivere ancora il proprio ruolo di padre («Cause nothing really matters when you’re standing, standing»): il pathos tocca il vertice nell’ascoltare la voce di Nick Cave tremante dalla disperazione, mentre sale rapido un singulto di lacrime e dolore.
Distant Sky diluisce la tensione sin qui accumulata, grazie a melodie oniriche (l’organo gioca la sua parte) ed alla soave voce del soprano Else Torp: sembra una parafrasi paradisiaca, come una minuscola luce di pace dentro un cuore straziato. Chiude Skeleton Tree con un’aria vagamente floydiana («Sunday morning, skeleton tree / Oh, nothing is for free»), le dita scorrono lievi sui tasti bianchi e neri, mentre soffi di percussioni dettano un’andatura armoniosa ma sostanzialmente triste e malinconica. Come fosse un ultimo saluto al figlio («I called out, I called out / Right across the sea / But the echo comes back empty / And nothing is for free»), Nick Cave si fa crepuscolare e riflessivo allo stesso tempo, conscio (e coraggioso) che dovrà convivere per il resto della vita con il fardello della perdita, il finale «And it’s alright now…» sembra la mesta e dura sentenza.

Skeleton Tree è un disco doloroso e di una malinconia che strappa il cuore dal petto con tale forza da lasciare senza fiato, ed in alcuni casi con gli occhi patinati di lacrime: è la grande dignità di un uomo verso il dolore, è la grande dignità di un padre verso la peggiore delle sventure. Anche attraverso il documentario One more time with feeling, Nick Cave sembra consapevole che nulla (specie nella sua produzione lirica e compositiva) sarà più come prima e che tale afflizione -in forme e manifestazioni nuove- lo accompagnerà per sempre: ci vuole sensibilità e forza per comprendere un disco di questo tipo, poiché oltre alla grande ombra del lutto c’è sempre un domani da dover riempire in qualche modo … and someone’s gotta sing the blood and someone’s gotta sing the pain

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

 

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