Blackstar – David Bowie

Alcuni dei mille significati di questo venticinquesimo -ed ultimo- disco di David Bowie sarebbero probabilmente passati inosservati se l’uscita di Blackstar non avesse anticipato di due giorni la morte del Duca Bianco. La conferma di quanto dico si può constatare dall’uscita dei primi due singoli (accompagnati da inquietanti ed inequivocabili videoclip), nel quale il flirt con la morte e con l’esoterismo sono molto più di un contorno eclettico; eppure nonostante questa impressione incontrovertibile, i critici contemporanei si soffermarono quasi esclusivamente sulle sonorità elettroniche e rarefatte del disco, piuttosto che sui significati celati in esso. Poco importa se fosse tutto stato pianificato -come era poi nell’indole di Bowie- dall’uscita del disco il giorno del 69esimo compleanno, ad una morte “programmata” come vocifera qualche impressione fuori dal coro; tuttavia quello che ci rimane è un album-testamento di impressionante empatia.

Registrato a New York, ove oramai David Bowie risiedeva da anni, e con alla regia l’immancabile Tony Visconti, Blackstar è un disco che subisce un influenza funerea ma impersonale, nella sua spoglia essenzialità emergono liriche scarne ed evocative, fraseggi jazz ed algidi beat digitali; il minimalismo è dilatato in sette brani densamente strutturati, nel quale cori cerimoniali s’addensano in una funerea atmosfera rimarcata da fiati ed archi la cui nenia lenta sembra accompagnare verso un lungo sonno.
Blackstar esce come singolo nel novembre 2015 accompagnato da un lungo videoclip in cui David Bowie appare segnato in volto dall’età (e dalla malattia, su cui tuttavia gravava il massimo riserbo) assumendo pose (la benda sugli occhi e gli abiti scuri) ed atteggiamenti (le mani su un piccolo volume che pare una Bibbia, ma che è marchiata da una grande stella nera) che dopo il 10 gennaio hanno rilevato nuovi ed inquietanti significati. Il brano apre con la voce dilatata di Bowie in una sorta di messa gregoriana, mentre in sottofondo si muovono intestini beat fiammeggianti ed echi decadenti di sassofono, i movimenti così divengono lenti e ragionati, in una sorta di nera e cupa armonia, I riferimenti esoterici sono piuttosto evidenti, una passione innata di Bowie per gli studi di Aleister Crowley, dal ritualistico ah-ah che risuona ciclicamente nella prima parte del brano («on the day of execution / Only women kneel and smile, ah-ah, ah-ah»), ai frammenti nel videoclip di pose ed immagini che assorbono in un sol boccone tutta l’atmosfera cerimoniale del brano. La tensione diventa maniacale, ma si accartoccia su se stessa man mano che i minuti avanzano, trovando una quiete armonia con i versi limpidi ed estasiatici:

«Something happened on the day he died,
Spirit rose a metre and stepped aside
Somebody else took his place, and bravely cried
(I’m a blackstar, I’m a blackstar)»

Nella successiva  evoluzione di Blackstar, Bowie canta come rapito dalle influenze passate di Station to Station, mentre di rimando i I’m a blackstar disturbano la stasi emotiva che si era venuta a creare. Ben presto si ritorna alle tematiche iniziali ed a un simbolismo di morte piuttosto evidente: tre spaventapasseri messi in croce come sul Golgota, e successivamente una donna vestita di nero porge un teschio ad una giovane adepta mentre risuona il verso iniziale «In the villa of Ormen stands a solitary candle Ah-ah, ah-ah». Tutto il pathos scivola via in questo denso rituale, mentre i dettagli armonici sono portati all’esasperazione anche grazie ad una sapiente regia audiovisiva.

David-Bowie - BlackstarL’ascoltatore oramai stremato si aspetta una nuova litania sulla morte, ma la traccia successiva apre inaspettatamente a sonorità fusion, ugualmente acide ma dall’accento più sereno e leggero: ‘Tis a Pity she was a Whore (da un’opera di John Ford sull’incesto) è un intramezzo che ricorda approcci già ascoltati in lavori precedenti di Bowie e la cui raffinatezza, accompagnata da un sax mondiale, concede il giusto ristoro.
In Lazarus (anticipato da un altro emblematico videoclip, come una sorta di continuazione a Blackstar) i toni si fanno chiari e definitivi, specie dopo la morte di David Bowie, poiché il verso iniziale «Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen» sono riferimenti lampanti alla malattia terminale del cantante. Il lento divenire dei fiati porta l’inquadratura principale ad un Bowie allettato e bendato in una stanza grigia e funerea (non dissimile dalla cupezza della Lullaby di Robert Smith, ma in questo caso lo spessore è decisamente diverso!); l’epitaffio assume un tono da marcia funebre, ma con un risvolto paradossale nella scena in cui Bowie seduto su di uno scrittoio cerca l’ispirazione, mentre in secondo piano ricompare il teschio protagonista di Blackstar.
Sue (or in a season of crime) ha l’intonazione trip-hop dinoccolata e sostenuta, come a voler addensare d’inchiostro una tensione che non riesce a stemperarsi; questo brano come ‘Tis a Pity she was a Whore non sono inediti, bensì sono stati ri-arrangiati per l’occasione, marcando con maggiore enfasi la parte sperimentale e jazzistica.
David Bowie tuttavia ammicca a sonorità più commerciali e vagamente hip-hop, come l’esperimento linguistico di Girl Loves Me (viene usato lo slang Nadsat -quello di Clockwork Orange-) che dopo qualche ascolto viene capito ed apprezzato; mentre Dollar Days è il pianoforte ed il sax in accompagnamento a regalare un piccolo e cinico raggio di sole, nel quale l’artista si confessa e si spoglia di qualsiasi remissione. L’ossessione per la morte ha sempre seguito il filo della carriera musicale di David Bowie, il fascino ed il timore si sono sempre fusi in unico grande spettacolo, sin dai tempi di Rock ‘n’ Roll Suicide, passando per la dipartita del momento di maggior successo di Ziggy Stardust, senza trascurare una forma di ipocondria latente, manifestata nel periodo di Station to Station e del film L’uomo che cadde sulla Terra. Qui l’uomo David Robert Jones si confronta con il proprio personaggio, gli eccessi ed i timori di una carriera carismatica e con il buon gusto per l’arte e lo spettacolo; il verso finale «I’m trying to I’m dying to» ripetuto con petulante meccanicità è un più di un inno alla memoria.

Il de profundis cala il sipario con I Can’t give everything away, la cui armonica iniziale richiama A New Carrier in a New Town (ossia la rinascita berlinese del Thin White Duke); i tempi sono dilatati con echi e riverberi che trovano nel sax e nell’organo i movimenti giusti per chiudere con una sensibilità austera questo testamento musicale:

«Seeing more and feeling less
Saying no but meaning yes
This is all I ever meant
That’s the message that I sent»

Blackstar è strettamente legato al concetto di malattia e di morte, e non solo per i fatti cronologicamente temporali che si sono susseguiti all’uscita del disco. La perdita di un artista come David Bowie è incolmabile, tuttavia la sua carriera e la sua musica sono molto più che fonte d’ispirazione, è il corollario di una vita artistica pazzesca, issandolo non solo come anima pop e stella della musica contemporanea, ma come uno dei geni più prolifici ed attenti del ventesimo secolo. Ci mancherai Sir Bowie, e mancherai tanto anche al Maggiore Tom …

 

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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