Sounds and Shades of Sound – Luca Flores Trio

Luca Flores Trio - Sound and Shades of SoundMi piaceva l’idea di dare a questo spazio di recensioni musicali, un accento più alto, una vena più intensa della solita disquisizione tecnica, partitocratica o umorale. Ed oggi tra queste righe concentriche voglio raccontare le vicende di un pianista sensibile e talentuoso, rendendogli un omaggio sentitamente sincero, di quelli che spezzano l’anima in due quando soffia il vento.
Luca Flores è il nome dimenticato del jazz italiano. Un po’ perchè in un paese moderato e mediocre come il nostro, non c’è mai respiro per il talento viscerale ed autodistruttivo, esattamente quello che entra nell’essenza e ne altera i connotati. Nonostante l’estremo e buon tentativo del regista Riccardo Milani nella pellicola “Piano, solo“, nel quale il connubio biografico tra musica e vita personale, per una volta, pende da quest’ultima parte offrendo allo spettatore qualche spunto per i compiti per casa.
Sounds and Shades of Sound è solo uno dei titoli della discografia di Lucas Flores, accompagnato da Lello Pareti al contrabbasso e Pietro Borri alle percussioni, nel più classico dei trio, che allietava le serate fiorentine con graffiti jazz perduti nella memoria. Eppure, prima di tutto Flores nasce come pianista classico diplomandosi al Cherubini di Firenze; poi nel 1974 arriva il jazz.

Ed in relativamente breve tempo si ritaglia una propria posizione dei cunicoli solitari del jazz, entrando a far parte delle carovane sonore di Massimo Urbani e facendosi apprezzare anche da un certo Chet Baker!!!
Un ottimo trampolino di lancio, o forse l’apice di una carriera giovane e brillante, che nasconde tuttavia un tormento di infantile memoria. Questo passo è ben marcato nel film di Milani, abile ad illustrare con tatto il trauma che l’artista non superò mai, la perdita della madre in tenera età: un vuoto colmato solo in parte dalla musica, ma non sufficiente a placare l’impeto di questa “malattia” che col passare degli anni diventa “mentale”. L’epilogo pare quindi scontato: il 29 marzo 1995 il jazz perde, in silenzio, uno dei suoi migliori e semisconosciuti interpreti.
Tuttavia, l’eredità che Flores lascia trova un senso non solo nei propri dischi e collaborazioni, ma anche dall’attività di insegnamento che svolse nella seconda metà degli anni ’80 tra Siena e Firenze, in cui ebbe tra i suoi studenti un giovanissimo ed oggi affermato Stefano Bollani.

Mettendo sotto la lente d’ingrandimento un disco come Sounds and Shades of Sound, ci si accorge ben presto della spiccata sensibilità al piano, una carezza costante che fluttua tra jam sessions libere di ballare nell’aria. Averti tra le mie braccia offre un jazz pulito, chiaro e delicato in superficie ma capace di penetrare entro i meandri dell’emozione, per mezzo di trame fitte e slegate, puntellate da una buona coesione con basso e batteria. Intensissimi di quella quieta malinconia sono i 6 minuti dedicati ad Angela, un brano che si concede pause contemplative e veloci risalite, cullando le emozioni e svezzandole con parsimonia. In Ode to the Ocean le sovraincisioni di synth sorreggono con brio e segretezza, le scorribande di Flores tra i tasti bianchi e neri: l’impressione è per davvero quella di trovarsi dinanzi alla brezza che fischia da un promontorio. Feux Rouges e Darn that Dream percuotono quel nervo scoperto della solitudine, marciando con lentezza e crudeltà tra l’epidermide indifesa del cuore, straziando l’ascolto con una bellezza cruda e vera.

Il piatto forte, semmai ce ne fosse bisogno, è Softly as in a Morning Sunrise ennesima dimostrazione talentuosa del trio, che abilmente si cimenta in questo classico degli anni ’20 di Sigmund Romberg e Oscar Hammerstein. Una lunga jam ricca di spunti e di variazioni al tema, interpretata con personalità ed intelligenza, rendendo tangibile quel senso di serenità ed abbandono che il brano porta da sempre in dote: lo confesso, nonostante i 17 minuti abbondanti non ci si stanca mai ascoltarla e riascoltarla. Infine Dice Dance chiude con personalità questo capitolo musicale, manifestando un emotività che fuoriesce, nonostante tutto, da un freddo ed inanimato dischetto di plastica: immaginate cosa poteva essere l’ascolto dal vivo!

Questo tuttavia è solo uno degli esigui reperti nel quale si possa apprezzare la maestria di Flores, non di meno Love for Sale (1991) o le ultime sessions di Baker, per non parlare di Easy to Love (1987) di Massimo Urbani. Se avete fortuna di trovarli, investite mezz’ora nell’ascolto di questi capolavori … sia che siate amanti o meno del jazz: potreste riscoprire un nuovo sincero amore!

 

Recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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