L’Industrial Americano secondo Trent Reznor: Nine Inch Nails (1989 – 1994)

Per anni l’industrial era rimasto confinato ed impacchettato nel vecchio continente senza mai avere un successo particolarmente spinto, e per di più verso la fine degli anni’80 stava perdendo pure colpi.
Il polistrumentista Trent Reznor, deus-ex-machina dei Nine Inch Nails, si prese la briga di esportarlo in America e di trasformarlo in un genere per le masse, contaminandolo con ogni sorta di sonorità appetibile per il pubblico giovane di Mtv: ecco l’esordio di Pretty Hate Machine (1989).

Pretty hate machine - Nine Inch Nails (Trent Reznor)Con il singolo di lancio “Down in It” il progetto musicale di Reznor riesce a scalare le classifiche musicali statunitensi, tutto merito della struttura hip-hop del brano, il quale lascia volutamente in secondo piano l’industrial per arruffianarsi l’attenzione dei teenagers americani e delle loro nike. Fortunatamente con il secondo singolo “Head Like a Hole” la vera vena musicale di Trent Reznor esce finalmente allo scoperto: tutto l’industrial-rock dei successivi anni ’90 è racchiuso in questo brano: tastiera e batteria dai ritmi ballabili, chitarra elettrica ossessiva e screaming tutto servito su un piatto d’argento nel quale ci mangeranno migliaia di band industrial (Marilyn Manson sarà il commensale numero uno ). Nella seconda parte del disco Trent lascia spazio all’industrial di matrice tedesca, smussandolo bene a dovere per renderlo più radiofonico, ma creando comunque pezzi degni di nota, uno su tutti  “Sin”, claustrofobico vortice noise carico di rabbia. Ma non è solo industrial teutonico, c’è spazio anche per una wave alla Joy Division in” The Only Time”, che non è altro che la rivisitazione in salsa elettronica di “Day of the Lords” della band di Ian Curtis. In questo disco Trent Reznor fa suo il metal usato dai Ministry in “The Land of Rape and Honey”, ed è un bene perché visto il successo di questo esordio dei Nine Inch Nails da finalmente una buona visibilità al genere di nicchia come l’industrial metal.

La produzione a cura di Mark “Flood” Ellis non smussa il rapporto macabro tra amore e psiche umana trattato in Pretty Hate Machine, consuetudine che degenera spesso nella follia o nella possessione. Dopo un discreto successo commerciale (disco di platino negli USA, non male per una produzione indipendente), il tour promozionale tocca il Lollapalooza del 1991, i Nine Inch Nail oscurano gli headliner Jane’s Addiction, e preparano il terreno per il successivo passaggio alla major Nothing/Interscope Records, prima però danno alla luce l’ep Broken (1992).
The Downward Spiral - Nine Inch NailsCon la nuova etichetta nel 1994 registrano il capolavoro The Downward Spiral (1994), un concept incentrato sulla difficoltà di adattamento di un individuo all’interno di una società consumistica e materialista come quella americana, che sfoceranno nel prevedibile suicidio umano. Mr. Self Destruct apre con una dichiarazione d’intenti tanto chiara quanto oscura: «I am the voice inside your head / I am the lover in your bed / I am the sex that you provide / I am the hate you try to hide» corredati da oscuri e sinistri «And I control you» a completare ciascun verso. Atmosfere rarefatte, intrise di feedback sapientemente “controllati” da Adrian Belew e percussioni maniacali ed istintive la cui campionatura spetta al genio Chris Vrenna. Il successo commerciale fa capolino con Closer (uscito con il titolo di Closer to God nel singolo, il cui videoclip curato da Mark Romanek è rimasto nella storia di Mtv), le sue cadenze marmoree e quella naturale vocazione ad una certa orecchiabilità che apre il coro con un velato Help me …
Da segnalare la abrasiva March of the Pigs (dissacrante ritratto del massacro di Beverly Hills perpetrato dalla banda di Charles Manson), e l’irrequieta Heresy composta da echi synth spudoratamente anni ’80. Ruiner è un brano ammaliante nella sua isterica perversione: «Now the only pure thing left in my fucking world is wearing your disease».
Quattordici tracce che bilanciano irruenza e riflessione, come in A Warm Place, nel quale la struttura complessa mima ad un oblio profondo e ben delineato, vaghi rintocchi di synth si collocano in un inferno calmo di suoni e modulazioni; mentre Eraser vive sottoterra in un trip-hop maniacale e silenzioso, cito anche la camaleontica Reptile, lunga litania dai volumi e dalle sfumature più disparate. Hurt chiude il disco come un requiem di dolore e commiserazione, una suite raffinata (nonostante l’industrial grezzo e spontaneo) che trova nella soluzione finale l’unica luce possibile: «If I could start again / A million miles away / I would keep myself / I would find a way… » lasciando nel diniego e nell’amarezza l’ascoltatore.

Due dischi manifesto per quella che sarà la stagione dell’industrial meccanico americano, ricco di infatuazioni ma la cui purezza è definita solo in questi due album. I Nine Inch Nails e Trent Reznor hanno inaugurato una spirale di rock duro che sfocerà nella produzione di dischi di altri artisti, su tutti quel Marilyn Manson che metterà, almeno per un biennio, a ferro e fuoco l’America…

 recensito da Mighell & Poisonheart
Mighell heartofglass

Poisonheart hearofglass

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