Me and My Army – Phomea

Al primo ascolto di Me and My Army, diresti che sia proprio un disco di questi convulsi tempi, capace di perforare con il medesimo proiettile sia il nostro turbo-orgoglio che le più infime paure post-nucleari. Eppure, per comprendere meglio questo secondo lavoro sulla lunga distanza di Fabio Pocci (aka Phomea) sono dovuto andare alle origini, capire da dove fosse partito, e ripescando l’esordio Annie ho trovato molte risposte. Quello del 2019 era un lavoro sostanzialmente diverso da Me and My Army: immediato, spoglio, un diamante grezzo, ma con un affabile e livido songwriting denso di significati, anche personali. Nel frattempo Phomea è cresciuto artisticamente, e in Me and My Army non rinuncia all’introspezione come seme prezioso per ballate cariche di evocazione, a cui s’aggiunge una spiccata claustrofobia apocalittica ispirata dal quotidiano che ci viene riversato addosso: “Questa è una guerra …” afferma l’artista originario di Pistoia, ed osservando questo angusto presente, non possiamo che concordare.

Phomea - Me and my ArmyNell’affrontare una realtà peggiore della più bieca distopia, Phomea avanza con una potente armata, ad iniziare dalle tre label che distribuiscono il disco in fisico e in digitale: Beautiful Losers, Beng! Dischi e Beta Produzioni. Una milizia di musicisti (ben venti!) che lo aiuta a sciogliere i nodi interiori e le chiusure esteriori. Dodici brani, altrettante immagini surrealiste scelte dall’entità “artificiale” J.B., tre video tematici ed persino un filtro su Instagram, uno stuolo di musicisti: eppure un’unica regia, quella di Phomea stesso e di Lorenzo Pinto che supervisionano la produzione. Nel disco aleggiano atmosfere plumbee e nebulose, in bilico tra un folk acustico-cibernetico ed un sapiente -e mai invasivo- utilizzo dell’elettronica; ma è nei temi di Me and My Army che Phomea si fa tagliente e sincero, evitando sin da subito di cadere nel tranello della dicotomia umano/artificiale. Senza il tono da sermone domenicale, Phomea esordisce con uno spontaneo e sottile “We are all dummies …”  nell’iniziale Take Control  che sprona l’ascoltatore a dubitare, a tenere la guardia alta, soprattutto a credere in sé stessi, dinnanzi ad una realtà infestata da falsi e distorti ideali. In questa battaglia per la sopravvivenza non esiste esito scontato (anzi, perentoriamente Phomea ci informa con lucido nichilismo che The war is over and we’ve lost), non esiste umana compassione, o misericordia: la speranza è avvolta nell’oscurità (vedasi la malinconica e spiazzante Dark o la stessa title-track) e diventa una faccenda da vivere in solitaria, come paventato in Unplease me (scritta da Michele Mingrone).
Barlumi eighties (The Go-Betweens, perchè no?!) nella ariosa Lover, che tuttavia non rinuncia a seguire percorsi barocchi nel suo finale carico di enfasi; mentre s’abbandona a soluzioni più elettroniche la mesmerica Ruins of Gold, in raffinata melancholia quando plana tra archi e sax. Come Fitter Happier posto a spartiacque di Ok Computer, così il brano J.B. (che cita proprio il brano dei Radiohead) divide a metà Me and My Army, spalancando successivamente la strada a What about us, perfetto connubio tra lungimiranti riflessioni in acustico (My life is a nest without birds, My life is the rest) ibridizzate da grigi echi in lontananza. Entrati nella seconda parte del disco la cavalleria entra nel campo di battaglia, con brani più intimi e scarni, ma intrisi di un pathos che è logica evoluzione di quanto già apprezzato in Annie. Dapprima Run (con Are you Real?) scivola in una progressiva tensione tenuta a bada fino all’implosione del chorus (You call I wake up and run…), poi l’intimismo cupo di The Swarm con Flavio Ferri dei Delta V ed infine con la già citata Dark nella quale compare tra gli altri l’eclettico Alessandro Fiori. Tra tutte le dodici canzoni di Me and My Army, le emozioni migliori le riserva però la straniante Perfect Stone (I want to see you a perfect stone, no acid, foodless, toxic air will never kill you) vestita da ballata folk con incedere amaro verso i mutamenti ambientali che ci circondano. Non da meno è la finale Look at You, amara nella sua spirale che trascende la vita e la morte: la sconfitta non deve essere una condizione esistenziale.

Visionario e caparbio, Me and My Army è un lavoro che nonostante la dote di stili ed influenze di ciascuno dei venti musicisti impiegati in questo disco, si presenta lineare, coerente e soprattutto ben prodotto. Phomea riflette su un presente dove il virtuale ha doppiato il reale, dove l’artificio è il vestito obbligato, dove l’identità di ciascuno è su un profilo social a pagamento. Alla domanda “Cos’è umano?“, Phomea risponde con una tenace riflessione, che ci lega tutti in un unico grande gomitolo, e di cui non possiamo che condividere la grandezza: “Non vogliamo essere diversi. Siamo diversi. Siamo tutti in un qualche modo sbagliati ed è proprio questo che alla fine ci rende simili. Non siamo soli “

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recensito da Poisonheart

 

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