State bevendo con il numero tre: The Doors (1969 – 1971)

Il tour europeo dell’autunno 1968 di Waiting for the Sun si rivelò uno straordinario successo per i Doors. «Il pubblico era fra i migliori che abbia avuto. Negli States la gente viene a divertirsi, oltre che ad ascoltarti. Alla Roundhouse invece volevano ascoltare. E’ stato come tornare alle origini» Così ricordava al New Musical Express Jim Morrison all’indomani del secondo show alla Roundhouse di Londra.
Tuttavia il velato ottimismo che traspariva nei live, celava una sordida insoddisfazione per Morrison, che nella patria America si sentiva sempre più estraneo. La lavorazione del nuovo disco, che da contratto doveva uscire per la primavera del 1969, era avvolta dall’indifferenza generale. Nuovi gruppi spopolavano, Led Zeppelin su tutti, ed oscuravano via via quelli precendenti, quell’euforia della summer of love californiana iniziava a scontrarsi con la cruda realtà: qualcosa sottotraccia stava mutando!
La moda musicale rock del ’69 suggeriva l’uso di una sezione ritmica composta da fiati (marchio di fabbrica di Phil Spector, all’apice della propria autocelebrazione!) ed il produttore Rothchild prese questa novità molto sul serio, gettando così le linee guida del successivo album. D’altro canto Morrison non aveva materiale nuovo a disposizione, e non pareva troppo ispirato dall’idea. Visibilmente ingrassato, Morrison non perdeva occasione per ubriacarsi, rendendo così la sua presenza negli studi di registrazione abbastanza inutile. Quindi senza esagerare si può affermare che The Soft Parade sia l’album di Robbie Krieger piuttosto che dei Doors.
Un disco che nasce sotto una cattiva stella e che raccoglie canzoni mediocri e poco calzanti allo stile finora apprezzato dei Doors. La sezione fiati e gli arrangiamenti d’archi sminuiscono l’essenza blues-psichedelica del gruppo (forse passata di moda secondo l’Elektra!) e le liriche, scritte per la maggiore da Krieger, non sono all’altezza dei precedenti lavori.

The Soft Parade - The DoorsTouch me è il singolo che traina un disco banale come il videoclip realizzato per l’uscita promozionale, tuttavia è una delle migliori canzoni del lp. Jim Morrison, nei pochi momenti di lucidità, malvolentieri si adatta al nuovo sound ma grazie ad una performance vocale, a tratti aggressiva, riesce a salvare il salvabile. Le tastiere di Manzarek, come evidenziato in Waiting for the Sun, sono ormai comprimarie alla band: i fiati conferiscono un atmosfera grigia anni ’50, nonostante il contributo del jazzista nero Curtis Amy (già con Dizzy Gillespie!).
Shaman’s Blues è l’unico brano degno di nota, per la sua tenacità ed esalta, qualora ce ne fosse bisogno, il tema dello ‘sciamano’ Morrison caduto oramai in disgrazia. Un blues rivisitato, efficace oltre i confini citati e per questo mai sopra le righe; nulla di eccezionale per carità, ma per The Soft Parade ci si accontenta. Con il rimpianto del “senno di poi” e magari con maggior attenzione alla fase di arrangiamento, il brano poteva perlomeno ambire a qualche paragone con le più celebri “canzoni-opera” di cui i Doors sono stati geniali maestri. In realtà, la band dimostra di essere in generale stanca e poco ispirata, e nemmeno la perla nera nascosta di Wild Child riesce a sollecitare il palato degli ascoltatori più esigenti. Il leggero blues biascicato concede un ristoro breve e intenso dai fiati ululanti, con un riff di Krieger nervoso e carico di buone intenzione. Ahimè una perla trascurata, accanto a canzoni del modesto calibro di Tell all the people che apre il disco, o a Wishful Sinful, un infantile ballata senza consistenza, nella quale nemmeno Morrison sembra troppo convinto nel cantarla.
Se errare è umano, chiudere con l’omonima traccia  The Soft Parade è quantomeno diabolicamente modesto: in nessun modo può competere con i capolavori di chiusura dell’esordio o di Strange Days. Un arrangiamento povero, poco studiato e a tratti stonato ed insolente, con Morrison che cerca di inserire fiacche tracce poetiche che però non lasciano il segno. Troppo leggera questa “Parata” doorsiana, che nonostante tutto mantiene discrete vendite ed vagamente attenta l’attenzione mediatica sulla band. Tuttavia le nubi all’orizzonte sono ben chiare, e non solo all’interno della band: dall’elezione a presidente degli Stati Uniti di Richard Nixon, all’FBI che aprirà un fascicolo su Morrison, alle frequenti sbronze del cantante; dai contrasti interni del gruppo all’arresto di Miami.

Quest’ultimo episodio segna il declino definitivo della carriera musicale di Morrison: il frontman viene arrestato durante il concerto alla Convention Hall di Miami Beach per atti osceni in luogo pubblico. Il dossier dell’FBI e una stampa conservatrice e compiacente (consiglio di rivedere le immagini di alcune dichiarazioni di giovani presunti fans intervistati dai notiziari!) afferma con scientifica precisione che Morrison durante l’esibizione si fosse calato i pantaloni mostrando i genitali al pubblico. Morrison difficilmente portava l’intimo sotto ai pantaloni in pelle, tuttavia l’episodio è da ricercarsi piuttosto in una sorta di omaggio morrisoniano al Living Theater di cui era diventato curioso sostenitore. Durante il concerto alcuni presenti ricordano questo monologo: «Ehi, ascoltate. Una volta credevo che fosse tutto uno scherzo del cazzo. Una volta credevo che fosse una cosa da ridere. E poi, le ultime due sere, ho conosciuto gente che fa qualcosa. Fanno qualcosa, e io voglio unirmi a loro. Voglio cambiare il mondo. Yeah! Cambiarlo. Coraggio! La prima cosa che faremo sarà occupare le scuole!». Inoltre Manzarek e gli altri membri confermarono che Morrison portasse i boxer, però questo oramai non aveva più molta importanza: il tour venne definitivamente cancellato, perdendo in un colpo solo introiti e immagine.

Morrison Hotel - The DoorsIl processo imminente e il rischio di arresto se avesse di nuovo messo piede in Florida (manette che arriveranno a Los Angeles il 4 aprile 1969), mossero l’entourage dei Doors a riccacciare la band in studio per registrare un nuovo disco. La perdita del tour americano era pesante, e solo un buon disco poteva risolevvare le sorti di una band arrivata quasi al capolinea. Morrison Hotel (1970) è una parziale rinascita a livello artistico e l’ennesimo trasformismo di Morrison, che barbuto e ingrassato, prova a vestire i panni del bluesman maledetto o se volete quelle di James Douglas Morrison, il poeta. Un album dedicato all’America del camionista, all’uomo on the road, che trova rifugio nei saloon, all’uomo che cuoce sull’autostrada in solitudine, all’uomo delle bevute sotterranee. Il tutto accompagnato da liriche blues e da un Krieger in versione quasi rockabilly. Armonica e basso elettrico in prima linea, con Manzarek alle prese con un piano elettrico in voga anche dalla band di Miles Davis.
Il lato A è intitolato Hard Rock Cafè, e apre con la magia di Roadhouse Blues che infiamma la “gente on the road” grazie a un ritmo energico di matrice beat, certamente livido e vissuto, ammaliante. Impossibile rimanere indifferenti dal chorus ondeggiato «Let it roll, baby roll, let it roll, all night long».
Il resto del lato si mantiene a discreti livelli senza tuttavia strafare: ripescata Waiting for the Sun (esclusa dall’omonimo disco) con il suo sound tipicamente sixties, oppure il mezzo funky ossessivo di Peace Frog in cui Morrison si concede molto alla poetica.
Il lato B, Morrison Hotel, segnala l’ottima e ambigua The Spy, in cui Morrison prende spunto da Anais Nin con il suo romanzo ‘The spy in the house of love’, raccontando un amore paranoico e segreto. Queen of the Highway invece ricorre ad un jazz molto rivisitato con qualche tocco psichedelico di fine anni ’60. Indian Summer è una malinconica ballata d’amore, mentre il basso corposo di Lonnie Mack (accreditato tra i musicisti) infierisce le giuste fibrazioni alla melodia a Maggie M’Gill, un blues in piena regola, con un Morrison che ne veste meravigliosamente gli abiti.
Sembra rappresentare un album di rinascita a metà. I tempi d’oro sono finiti, inutile nascondersi, e i Doors sono sempre più in balia di Morrison pazzo poeta, sempre meno interessato alla musica.

Assolto parzialmente dalle accuse di atti osceni, Morrison raccoglie gli ultimi pezzi della propria carriera dedicandosi al primo amore: la poesia. I Doors come band sono ormai sono al capolinea, e ne è testimone l’addio di Paul Rothchild in cabina di regia. Come se non bastasse si aggiungono altri fattori noti: i gravi problemi di alcoolismo di Morrison e le isterie nella sua relazione storica con Pamela Courson. La trasformazione da sciamano edonista a ubriacone perdigiorno è compiuta, con l’aggravante che pure le sue poesie ne risentono. Inoltre le tragiche vicende di Hendrix e di Janis Joplin, lo portano ad affermare in maniera macabra agli amici di bevute: «State bevendo con il numero 3. Esatto. Il numero 3». Un cinismo lungimirante.

L.A. Woman - The DoorsNonostante tutto, le vendite delle opere poetiche di Morrison, ‘The Lords and The New Creatures’ e ‘An American Prayer’ procedono discretamente; eppure agli occhi di tutti Jim Morrison è la rockstar, non è il poeta affabile in cui lui cerca disperatamente di immedesimarsi.
L.A. Woman è il canto del cigno e nasce sotto una coltre di depressione poetica visibile nelle liriche di Morrison, che vive da bluesman almeno nell’aspetto, con barba e capelli lunghi e poco curati. La fortuna di un disco sopra la media è probabilmente dettata dall’addio di Rothchild, che lasciando il testimone al suo vice, Bruce Botnick, libera la band da pressioni e sofferenze, lasciandoli completamente liberi di creare. Ed era esattamente quello di cui avevano bisogno. L.A. Woman è perciò un disco che nessuno prima dei Doors aveva provato a registrare. Un blues secco, spinoso, senza compromessi, tragico e allo stesso tempo denso di una malata ispirazione. È l’emblema della condizione di Morrison, sempre più malconcio ed ostaggio dei propri fantasmi.
Ad arricchire la sezione ritmica ci pensano il bassista Jerry Scheff (già con Elvis) e il chitarrista ritmico Mark Benno. E dalle prime note di Changeling è evidente che la nuova direzione presa è quella giusta: se la confrontate con le hits d’esordio rimarrete alquanto disorientati.
Love Her Madly è una delle più ispirate liriche con tracce di onirismo beat. Il ritmo è incalzante e la casa discografica opta perché diventi il primo singolo. Si prosegue con altri blues più o meno efficaci, come Been Down so Long, tratto da un romanzo di Richard Farina, o Crawling King Snake, pezzo teso e freddo cantato con voce viscida e impastata (come quasi in tutto il disco). Spazio anche per il recupero di L’America, pezzo scartato qualche anno prima da Michelangelo Antonioni per il suo controverso e sfortunato Zabriske Point.
Ciò che fa grande L.A. Woman sono tre tracce in particolare.
The WASP (Texas Radio and the Big Beat), elegia orgasmica e succosamente beatnik, con perle poetiche di impressionante valore ancora oggi:

«The Negroes in the forest brightly feathered. They are saying, ‘Forget the night. Live with us in forests of azure. Out here on the perimeter there are no stars Out here we is stoned – immaculate’»

La title-track, è un viaggio on the road per la fantastica L.A., in cui Morrison si racconta con la consueta maschera di versi visionari e densi di immagini: gli ‘Hollywood bungalows’, oppure i topless bar o le strade polverose del deserto o delle spiagge. E poi questa donna misteriosa: «Are you a lucky little lady in The City of Light, or just another lost angel …City of Night». Il picco si tocca quando Krieger e Manzarek preparano il terreno per l’estasi finale in cui fa capolino Mr. Mojo Risin’ (brillante anagramma di Jim Morrison), in un incalzante e delirante crescendo che reca in ugual misura raggelanti e torridi brividi corporei, seducendo l’ascoltatore nella parte finale di L.A. Woman.

L’album si chiude con la malinconica e viscerale Riders on the Storm. Una tempestosa melodia da cocktail-bar, che lascia pian piano spazio ad un blues leggero e narcotico, in cui Morrison canta di un ‘killer on the road’, sicuramente ispirato a The Hitchhiker, un copione scritto dal cantante in cui si parla appunto di un killer autostoppista nel deserto del Sudovest. Una sorta di Easy Rider mal riuscito e mai uscito dal cassetto.
Quando l’album esce negli States Jim Morrison è già a Parigi a fare il bohemien con Pamela Courson.
L’epilogo è già scritto. Il gruppo non è ufficialmente sciolto ma poco ci manca.
Nel luglio del 1971 se ne va anche il numero 3: James Douglas Morrison viene trovato morto in una vasca da bagno come Jean-Paul Marat, in questa romantica visione che a Morrison sarebbe piaciuta. I misteri che si susseguono sulla morte del cantante-poeta, alimentano tiepidamene l’interesse per il resto dei Doors, che stoltamente continuano come trio: falliscono in maniera prevedibile e si sciolgono definitivamente poco dopo.

L’eredità culturale che ci lasciano i Doors è ricca specialmente nei primi due dischi, ove la corrente morrisoniana è forte e virile. Poi le logiche di mercato impongono una virata meno intellettuale e più radiofonica facendo scivolare via l’interesse per questi politici erotici, che resistono e lottano con altalenanti forze per smuovere in parte le coscienze dei giovani del 1967-68, a . Il blues finale è una grande salvezza e celebra in maniera indelebile una delle migliori band della seconda metà degli anni ’60, oltre anche quella che sarà l’icona Jim Morrison.

 

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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