My Woman – Angel Olsen

Da qualche anno a questa parte si è consolidata l’abitudine di un’uscita discografica tutta al femminile che sbaraglia la nutrita concorrenza, portandosi sempre sul podio dei migliori dischi dell’anno. Se nel 2014 i lavori di Sharon Van Etten e St. Vincent avevano alzato lo standard cantautorale a livelli davvero importanti, mentre l’immediatezza lo-fi di Courtney Barnett o la delicata mascolinità di Torres nel 2015 ridisegnavano nuovi scenari per indipendent femminile; in questo 2016 ricco di aspettative (ma forse povero di grandi idee) ecco che My Woman di Angel Olsen sembra soddisfare i palati più fini.

I will watch you turn and walk away: La giovane cantautrice del Missouri aveva già fatto parlare di sé con l’ottimo esordio di Half Way Home (2012), bissato dal più complesso Burn Your Fire for No Witness (2014), ove arie folk e velleità indie toccavano estremi molto acuti ed emozionanti. Eppure, se nei precedenti lavori mancava una sorta di omogeneità a scapito di un’immediatezza folgorante, in My Woman tutto sembra spalmato delicatamente su di una tela intrisa di contrasto tra un timido sad-core ed un folk più radiofonico, limando le asperità in fase di produzione grazie all’orecchio di Justin Raisen (già con Charlie XCX e Sky Ferreira, non proprio indie!). Sonorità rotonde e mature che non indeboliscono la scrittura asciutta di Angel Olsen, anche quando le armonie si fanno più barocche, come in Intern che apre in maniera bugiarda il disco: in un’atmosfera acquosa e diluita, i synth giocano sul rincorrersi degli echi enfatizzando arie narcolettiche, mentre l’interpretazione di Angel Olsen assume acuti e solfeggi del tutto nuovi rispetto ai lavori precedenti. Il trade d’union con la successiva Never be mine giustifica la scelta coerente, poiché se nella prima l’amore viene mascherato da una quotidianità soffocante, svelandosi solo alla fine («Pick up the phone but I swear it’s the last time»), nella seconda il tono sixties alla Ronettes è spudorato nella sua andatura matura.

Angel Olsen - My WomanStop pretending I’m not there: Il disco prende i giri necessari con Shut up kiss me, rigurgito alla “prima” P.J. Harvey, con il giusto mix tra sagacia femminile ed empatia decisionale, grazie ad un cantato che cambia latitudine e pose a seconda delle esigenze ed a una chitarra tagliente e cruda, senza essere necessariamente rumorosa. L’andatura ciondolante del brano -correlato ad un approccio vestito di lo-fi- è in realtà molto curato nei dettagli (vedasi i cori finali e il giro di chitarra di chiusura), misurando lo spessore di una produzione che voleva mantenere intatta l’autorevolezza e la sensibilità delle liriche di Angel Olsen, contrapponendo una spinta maggiore negli arrangiamenti, in modo da enfatizzare le note più emotive di My Woman. Give it up gioca su tonalità vocali sbarazzine, risultando tanto bubblegum quanto lo-fi, imprimendo dissonanze ed una sporcizia indie che all’inizio non ci saremo mai aspettati. Not gonna kill you (nonostante qualche richiamo alle ballads di Hole o Bangles) si evolve e si trasforma in corso d’opera, emancipando nuovamente l’essere femminile ed esaltando una sorta di rinascita spirituale («Or let the light shine» in ripetuto con insistenza nell’ultimo verso) che vuole imporsi nella realtà quotidiana. Heart Shaped Face approda in un terreno ancora più autorevole e raffinato, spingendo sempre più in profondità l’armonia vocale di Angel Olsen, che pare acquisire via via maggiore grazia e controllo, descrivendo così un’emotività toccante ma allo stesso sofferta e conscia di un certo innato fatalismo («Got a heart shaped face was it a feeling you thought I could dig up or erase?»).
Eppure nonostante le ottime sensazioni fin qui distribuite, è con Sister che si tocca l’apogeo emotivo, suonando un pizzico vintage nell’incipit ma evolvendosi piano piano lungo i suoi 7 intensi minuti. La preghiera ad una sorella d’anima (forse solo immaginaria) assume l’impellenza di comunicare una certa sensibilità e condivisione, in maniera diretta e semplice Angel Olsen sussurra nel laconico chorus «I want to know you / I want to show you / I want to be there /I want to see her…» prima di esplodere in un ossessivo e compulsivo «All my life I thought I’d change» colorato da un ottimo intermezzo strumentale, in cui si toccano i vertici artistici di questo disco.

I dare you to understand what makes me a woman: Una sorta di ritorno alle pacate nenie sixties fa capolino nuovamente con Those were the days, laconico esercizio di memoria, mentre l’altro grande sforzo compositivo lo si può apprezzare in Woman. La finezza negli arrangiamenti è quasi leziosa (archi in sottofondo sembrano evocare nervosi nembi d’altri tempi) e vagamente pomposa, tuttavia l’onestà dell’interpretazione di Angel Olsen spegne qualsiasi artificio da studio, accompagnando il brano verso un climax crescente che non s’arresta nonostante i tempi così ampiamente diluiti. Nonostante Woman potesse essere la migliore conclusione possibile del disco, tocca all’androgina ed emotivamente massacrante Pops mettere le ultime lacrime ad un disco sensibile come My Woman: voce e piano serrano il cuore in un groppo duro da digerire, parafrasando probabilmente una delle tante sfaccettature dure, lunatiche e seducenti dell’essere donna.

recensito da Bambolaclara
BambolaClara heartofglass

 

Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.