Butthole Surfers (ep) – Butthole Surfers

«I Butthole Surfers per molte persone erano la più grande band del mondo» Thurston Moore

I Butthole Surfers non posso definirli una band, sono piuttosto una comune hippie sgangherata e folle. Con il punk-hardcore hanno da spartire ben poco in senso stretto; ma la capacità di portare la loro carriera a livelli di autogestione incredibili, fa di loro un esempio drastico di do-it-yourself estremo e lacero.
La loro arte performativa, la loro capacità di provocare ed incutere disgusto e terrore nel pubblico in un atteggiamento quasi intimidatorio, la spettacolarizzazione della follia, degli strati più nascosti della psiche (malata!) umana, sono elementi esclusivi e mai ripetuti della comitiva guidata da Gibby Haynes e Paul Leary: «Era un misto totale di immagini buone e cattive che ti arrivavano negli occhi, era una specie di assalto, la mente non riusciva a digerirle»

La scintilla tra le due “menti” scatta con la passione in comune per Yves Klein (noto ai più per essere il precursore della body-art) e per un comune senso dell’orrido che li porta, nella fanzine Strange V.D., a pubblicare fotografie mediche con amputazioni e deformazioni varie. La provocazione qui è solo un cliché, la vera forma d’arte resiste alle prime impressioni di rifiuto, per instaurare un connubio viscerale con tutte quelle fantasie e perversioni inconsce che la gente comune tende a reprimere. E la musica dei Butthole Surfers non fa eccezione: ritmi sghembi, sgraziati, disarticolati per non dire rumorosi, morbosi, che in confronto il droning anfetaminico dei Velvet Underground è solo un antipasto di quello che nei loro concerti si poteva sentire.
Con l’entrata in pianta stabile di King Coffey alla batteria (che dividerà poco dopo con Teresa Taylor, formando un duo di percussionisti davvero inusuale) e di Bill Jolly al basso, ecco che la musica dei Butthole Surfers prende forma, affascinando e convincendo Jello Biafra che li arruolerà nella sua Alternative Tentacles facendoli registrare l’omonimo ep nel 1983, conosciuto anche come Brown Reason to Live o Pee Pee the Sailor.

Butthole Surfers EPLa comitiva lascia ben presto San Antonio (curioso notare come una band folle come questa non potesse che uscire dal Texas!) per peregrinare con un furgone scassato per tutta l’America procacciandosi le date giorno dopo giorno, vivendo di stenti, dormendo sul pavimento in casa di conoscenti ed amici: insomma tutte quelle cose che le band hardcore avevano fatto nei primi anni ’80, ma che loro facevano in maniera ancora più estrema. I guadagni dei concerti e delle vendite dei dischi (i primi due ep per la Alternative Tentacles nonostante fossero prodotti male ed in economia, fruttarono quel tanto che basta per mantenere tutta la baracca) furono prontamente reinvestiti per realizzare scenografie ed effetti speciali da mostrare ai concerti. Luci stroboscopiche, animali impagliati da squartare, filmini di autopsie, costumi vari, cerchi infuocati ed altre diavolerie simili (il megafono davanti al microfono lo hanno inventato loro!) diventarono parte portante nei live dei Butthole Surfers.

Una banda di gispy lisergici che nella loro musica infondevano quella stranezza demenziale che il punk hardcore aveva sempre ignorato; ecco che brani come The Shah Sleeps in Lee Harvey’s Grave e l’urlaccio iniziale ubriaco di Leary «There’s a time to fuck and a time to crave» deflagra in un vomito di rumore sconclusionato, sinistro, che ha la capacità di provocare malessere fisico in chi ascolta. È un assaggio di cosa la follia dei Butthole è in grado di creare; eppure in Hey si può toccare con la lingua quel retrogusto schizzato delle ballate hippie annata ’68, mentre tutt’attorno un ritmo di batteria martellante crea la confusione ideale nel quale migliaia di hey riecheggiano come se fuoriuscissero da tutti gli orifizi. Anche Something si mantiene sull’ondata cattiva con quello slang parlato che parallelamente sarà ripreso a New York dai Beastie Boys, che apre la pista a swingate melodiche che appaiono decisamente stonate nel basso grumoso e nelle chitarre malvagie, mentre una nenia rilassante di sax lascia smarriti e senza parole, facendo avvicinare i Butthole Surfers alle cavalcate orchestrali che David Lynch insidiava in Blue Velvet.

Bar-B-Q Pope porta in dote un’andatura da cowboy zoppo (riecco il Texas) mentre Leary strilla versacci inconcludenti, ove la visione escrementizia del mondo e la scatologia trovano la propria beatificazione in proclami come «They shot the Pope / They shot his ass» o nell’intera malata The Revenge of Anus Presley. L’effimero vintage, quasi rockabilly, viene sverniciato in Wichita Cathedral, ove Gibby Haynes cadenza le parole come un bovaro con il capello di paglia mentre mastica del tabacco; Suicide prende dall’hardcore l’irruenza e la capacità di sintesi, riducendo all’osso ogni velleità artistica.

L’omonimo del 1983 in realtà doveva essere il long-playing, ma le scarse finanze della Alternative Tentacles non poterono sostenere le spese per un disco intero, così qualche mese dopo verrà dato alle stampe anche Live PCPPEP che ripropone dal vivo alcune canzoni contenute nell’esordio (reperibile in vinile assieme a Brown Reason to Live).
I Butthole Surfers abbandonarono ben presto l’etichetta di Jello Biafra, per diventare la band di punta (assieme ai Big Black) della Touch & Go di Corey Rusk. Con l’etichetta di Chicago pubblicarono follie ed invenzioni maniacali per tutti gli anni ’80 (si ricorda ad esempio il buon Psychic Powerless Another Mans Sac del 1985), contaminando gli Stati Uniti di quella visionarietà che poche band ammetteranno di aver attinto, ma che è da ricercarsi sinceramente  dal profondo della psiche malata dei Butthole Surfers.

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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