Milo goes to college – Descendents

Quando nel 1982 i Black Flag giravano l’America per suonare Damaged, i Descendents stavano registrando il loro esordio Milo goes to College: la nuova generazione post-hardcore avanzava.
Meno rigidi verso l’etica hardcore, ma ugualmente pungenti, violenti, talvolta più esagerati delle performance machiste di Henri Rollins; i Descendents hanno saputo raccogliere l’ironia fumettistica dei Ramones e di riportarla sui binari alternativi ed indipendenti, suonando freschi, talvolta giocosi ma mantenendo intatta la potenza sul palco.

Dopo i soliti tira e molla di formazione e di progetti preliminari Frank Navetta con Bill Stevenson alla batteria e Tony Lombardo al basso cementano il sound dei Descendents, trovando in Milo Aukerman la voce perfetta. La band californiana esordisce con Fat (ep), come la quinta uscita della neonata e traballante New Alliance Records dei Minutemen. Sotto l’ala prottetrice di Spot (colui che ha prodotto gran parte dell’hardcore su SST), il quartetto registra a Redondo Beach l’esordio nel 1982, Milo Goes to College, ironizzando sulla scelta dello stesso Aukermann di riprendere gli studi di biologia (alla faccia del no-future lydoniano) che lo porteranno a conseguire addirittura un dottorato molto prestigioso.

Descendents - Milo Goes To CollegeL’impegno part-time di Aukermann (sostituito occasionalmente dal chitarrista Ray Cooper) ed la contemporanea chiamata di Stevenson dietro la batteria dei Black Flag con cui registrò My War, porta i Descendents nel biennio 1982-1984 ad un’attività live meno intensa rispetto alle altre band hardcore, tanto da portare il fondatore Frank Navetta (e successivamente Lombardo) a lasciare definitivamente la band, dopo il capolavoro I don’t wanna to grow up. I Descendents tuttavia risorgeranno brevemente grazie ad Aukermann e Stevenson proprio quando il declino della scena hardcore si fa più evidente (nel 1986 i Black Flag si sciolgono), resistendo fino al 1987 come gli ultimi superstiti della scena californiana. Le chitarre “swingano” come quelle di Greg Ginn, ed il punk dei Descendents si trasforma in un evento festoso, carico come sempre di quella repulsione aliena che ne rende paradossali i contrasti. In Myage l’amore non corrisposto di una ragazza assume pose irriverenti («Every night, it’s all the same / She’s been a-fuckin’ with my brain»), mentre in I Wanna Be a Bear la condizione umana viene addirittura rifiutata, in bilico tra il conformismo ed il consumismo reaganiano il tutto può essere riassunto con «Humans are shit, I want to be a bear / I want to shit in the woods». Con I’m not a Loser,  i Descendents scrivono un inno punk hardcore che regge nei contenuti ancora oggi, nel quale le differenze tra chi ostenta e chi invece subisce passivamente diventano talmente profonde da delineare in maniera abbastanza lucida come appariva l’America dei primi anni ’80, ignara cosa l’ostracismo consumistico di Reagan avrebbe poi causato al paese ed ai più deboli. La lotta di classe dei Descendents non è quella economica, ma è quella per la sopravvivenza: «Spent all your money on shitty coke».

Così in appena 4 minuti vengono vomitate senza troppo ritegno tutte le tematiche care al punk: la diversità, l’anticonformismo, l’isolamento. La rapidità d’esecuzione (alcuni brani non toccano nemmeno il minuto) e la brevità ed efficacia degli slogan contenuti, creano un connubio potente mentre sezione ritmica e chitarra stridono, cadono, si capovolgono e riprendono la foga sgangherata. I’m not a Punk è un atto d’onesta giovanile, mentre M-16 lucidamente ironizza sinistramente su un fenomeno che quindic’anni dopo toccherà il cuore degli Stati Uniti («Go shoot your M-16 / I’m not gonna live your American dream»), altrettanto agghiacciante è Suburban Home, piccola auto-proclamazioni di tutte le non-volontà:

I want to be stereotyped
I want to be classified
I want to be a clone

I Descendents si scagliano contro tutti i simboli dell’America benpensante: dai genitori (Parents ), ai simboli patriottici (Statue of Liberty), trovando anche il tempo per rallentare i ritmi (apparentemente) in Marriage, o di farsi orecchiabili e quasi melodici in Hope. Nel finale eccoli estremamente caustici nella perfetta Jean Is Dead, la cui spinta d’alienazione tocca punti personali quando si ricorda qualcuno che non c’è più: disperati, eppure così energici i Descendents urlano quanto di più vero esiste nella musica e nella vita con un sofferto «You should’ve told me, I should’ve known / But now you’re gone, and I’m alone».
Sottovalutati, i Descendents con Milo goes to College, seppur non creando nulla di nuovo musicalmente nell’emisfero hardcore, trovano le parole ed i volumi giusti per comunicare un malessere, che altri (in primis i Black Flag) avrebbero reso più cruento e rumoroso, ma che invece mantiene una discreta orecchiabilità ed una sagacia che in pochi hanno saputo cogliere nelle primavere migliori dell’independent californiano.

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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