Exile in Guyville – Liz Phair

Nel 1993 una quasi debuttante, sconvolgeva quello che restava del movimento indipendente dopo il saccheggio grunge perpetrato dalle major, con un disco dai forti connotati femministi e da un cantautorato lucido e fresco: Exile in Guyville è il fulmine a ciel sereno lanciato da Liz Phair alla discografia mainstream.
Elizabeth Clark Phair trova la sua Guyville nei sobborghi di Chicago, riuscendo con un semplice titolo (libera licenza da Goodbye To Guyville dei Urge Overkill) a descrivere non solo i tratti sociali di una generazione, ma anche quelle che sono le interconnessioni con la scena musicale e con un genere di mentalità decisamente maschilista (“This kind of guy mentality, you know, where men are men and women are learning“). A differenza del movimento riot-grrrls che nello stesso periodo faceva sentire la propria voce e le proprie distorsioni sul versante nord-ovest americano, il rock blueseggiante di Liz Phair risulta essere più radiofonico ed “educato”, senza tuttavia slacciarsi dal sentiero indipendente. Già nel 1991 Liz Phair faceva circolare un demo-tape con alcuni brani d’ispirazione rock-folk, finché non giunse all’orecchio di Gerald Cosloy della Matador Records, che ne rimase ipnotizzato, e senza nemmeno conoscerla decise di sottoporgli immediatamente un contratto discografico. L’approccio semplice di voce-chitarra collideva in maniera evidente con tutto il rumore che fuoriusciva da Seattle e dintorni, e nonostante qualche aggiustamento nella sezione ritmica in fase di registrazione, Exile in Guyville mantiene un approccio minimale e diretto come nel demo-tape registrato con lo pseudonimo Girly-Sound.

Liz Phair - Exile in GuyvilleDiciotto brani come sono quelli di Exile on Main Street degli Stones, lanciando un parallelo che idealmente ne raccoglie la frammentazione musicale e ne confuta, con lucidità ed ironia, l’aura maschilista e machista che ha sempre accompagnato la band di Jagger e Richards.
L’apertura di 6’11” è inequivocabile sul tono del album-concept: «I bet you fall in bed too easily / With the beautiful girls who are shyly brave» fa strike al primo colpo sull’orgoglio maschile, mentre nel chorus in salsa folk, Liz Phair canta con tono svogliato: «And I kept standing six-feet-one instead of five-feet-two / And I loved my life and I hated you» lanciando il guanto di sfida al maschio alpha di Guyville. Man mano che l’album entra nel vivo si possono scoprire le sfumature e le peculiarità di questa fantomatica e corrotta Guyville, ponendo un accento personale sottile ma costante in ciascun brano. In Dance of the Seven Veils il tono si fa quasi poetico, verso una rilettura della scena della testa sul piatto d’argento di un Giovanni-Battista-qualsiasi-donnaiolo-moderno («That I have got a bright and shiny platter and I am gonna get your heavy head»), che culmina nell’ironia finale, quando Liz Phair s’immagina una ipotetica scena sull’altare, precisando subito che il prete «He can probably skip the “until death” part / Cause Johnny, my love, you’re already dead». Never Said è il primo singolo estratto, e non a caso porta anche un maggiore sforzo nella produzione e negli arrangiamenti, che abbandonano momentaneamente l’approccio lo-fi di voce e chitarra, per svoltare leggermente verso un rock più aggressivo. Un anti-inno femminile che respinge colpo su colpo le arie blueseggianti ascoltabili in Tumblin Dice opposta sponda Jaggeriana.

Il folk a piene mani in Soap Star Joe succede alla contemplazione di Explain to me, riscaldando l’album di un’emotività personale che non necessita di ilarità o di metafore; proseguendo con l’ascolto ecco che le vibrazioni si fanno più decise e forti in Fuck and Run, nel quale con tono monotono Liz Phair canta del solito amore a stelle e strisce, irridendone le solite caratteristiche:

«And I want a boyfriend
I want a boyfriend
I want all that stupid old shit
Like letters and sodas
Letters and sodas»

Divorce Song è la tipica ballata nineties, masticata con un pathos felino, delineando le varie meccaniche dell’amore e della sua involuzione, mentre in Shatter il lungo intro di chitarra acustica anticipa un brano speranzoso, che lascia scoperto il lato più romantico di una ragazza che ha passato tutti gli stadi della disillusione: il lumicino di incontrare un uomo in grado di amarla è flebile, ma resiste nonostante tutto.
Flower è il brano più interessante in questa parte del disco, che apre con un coro a cappella (che ricorda l’incipit di You can’t always get what you want) che fa da contraltare ad un mezzo spoken-word nel quale tutta la rabbia di Liz Phair esce con intelligente sagacia, da «Your lips a perfect suck me size» passando per «I want to be your blowjob queen»: lasciando spazio alle più bizzarre interpretazioni.
Johnny Sunshine e Gunshy aprono a sonorità più rarefatte, nel quale echi e suoni ritardati sostituiscono gli arpeggi o le pennate delicate di chitarra, mentre in Stratford-On-Guy (secondo singolo di Exile in Guyville) l’amalgama sonora è più complessa e strutturata, portando Liz Phair ad un flusso di autocoscienza rallentato e ragionato ma che abbraccia tutto quello che nel disco viene detto o che si cela dietro mirabili metafore.

Exile in Guyville è quindi un concept istintivo, che con la parola e l’ironia riesce a smascherare la consuetudine maschile e machista, concedendo anche qualche indizio per decifrare l’esigenza femminile, dall’amore, al rispetto, alla fedeltà, all’autorevolezza. Senza cadute di stile o rabbiosi inni politici, Liz Phair evidenzia sul piano personale i sogni e le aspettative delle ragazze dei primi anni novanta, attraverso un approccio diretto e naturale, a cui non interessa né entrare nelle classifiche, né tantomeno rimanere integerrimo verso l’ideale independent.

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

 

 

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