Moon Pix – Cat Power

Must be the colors
And the kids that keep me alive
Cause the music is boring me to death
Mi chiamo Camilla e racconto della musica che riposa nel fondo della mia anima

 

Correva l’anno 1997; il grunge non se lo ricordava più nessuno, il movimento riot-grrls aveva raccolto frutti acerbi per palati intransigenti, e a parte qualche raro exploit (ricordi ancora la pimpante Liz Phair?!), la musica indipendente americana viveva una sorta di stasi prima della tempesta -testimoniata peraltro dalle uscite di un anno dopo di Neutral Milk Hotel, Tortoise ed Elliot Smith-. Chan Marshall (altresì nota come Cat Power) muoveva i primi timidi passi nell’industria discografica, grazie anche alle buone intuizioni di chi non ti aspetteresti mai, il timidone Steeve Shelley, all’apice discendente della carriera “alternativa” dei Sonic Youth. L’iscrizione al rooster della Matador (la stessa etichetta di Liz Phair, una sorta di sottile continuità, ma questo lo scopriremo più tardi) proietta Cat Power in un universo naïf ricco di influenze ed ispirazioni, nel settembre 1998 esce Moon Pix, capolavoro-flusso-di-coscienza-senza-virgole della giovane girovaga di Atlanta.
Cat Power - Moon PixDalla spiccata sensibilità artistica, Cat Power registra il disco in Australia coadiuvata dall’ossatura melodica dei Dirty  Three (oggi nota come la band di Warren Ellis), nel quale la batteria di Tim White e la sei corde di Mick Turner rilasciano un senso di minimale oblio perfettamente in tinta con le elucubrazioni emotive della cantautrice. Il risultato non è solamente un lavoro potente nel tono e profondo nelle intenzioni, ma soprattutto è un radioso spettro di ombre che si sommano strato su strato a formare una patina indelebile di beata decadenza e silenziosa commiserazione. Personaggi borderline si agitano come spettri nel raccontare la loro precaria e cristiana storia, Cat Power tesse i fili, ricama trame liriche soffuse, in uno spleen melenso forse, ma di grande impatto enfatico; come uno “stregatto” in acido «My old friend sits at the drum» si muove al rallentatore con una sgualcita bandiera americana a fare da sinistro contorno: questa è American Flag, benvenuti nel minimalismo mistico di Cat Power!
Disillusione e solitudine accompagnano con costanza le 11 tracce di Moon Pix, in una sorta di diario aperto in cui ciascuno brano è legato da un sottile filo di lana: He turns down ed un sibilante ululato di fiati si muove lento e minimale su di una tela ritmica spogliata da tutto il rumore anni ’90. Così a reggere l’enfasi del disco non ci sono arrangiamenti particolari o potenti soluzioni di rottura, è la voce rotta dal languore di Cat Power («Holding on for someone / Feels like holding on too long / Have you ever held on?») a muoversi con contemplazione in lungo ed in largo. No Sense e la sua naturale gemella Say, si muovono in binari paralleli (bellissimo il coro prolungato in quest’ultima) accompagnate da un essenziale arpeggio di chitarra, che si perde tra le righe di una poetica quasi cut-up, ma capace ugualmente di creare come un domino a cascata, immagini correlate strettamente tra loro.
Metal Heart rimarca quanto detto sopra (con una rediviva batteria che ben dialoga con l’asciutta sei corde); tuttavia l’apice del disco si tocca appena più tardi con la traballante lullaby di Back of your HeadBig monster lover, bigger pusher over / Stands alone through most parts of life / Walks alone through most walks of life») nel quale è il senso di colpa dello spacciatore a dare un significato profondo ad una tensione mai così cristallina. Dai ritmi più accesi ecco Moonshiner, che sembra superare i limiti di Back of your Head, rivelando personaggi dannati e con quella pesantezza kunderiana, come il distillatore clandestino di questo crepuscolare brano. 

Ballata d’ispirazione lo-fi (peraltro già presente nei lavori precedenti) è l’immediata You may know him, mentre diametralmente opposto è l’umore della disperata Colors and the Kids che fa precipitare in un vuoto senza ritorno l’epilogo di un album livido di emozioni e di sensazioni (forse il momento più straziante del disco). Cross Bones Style si muove con una buona dinamica, anche grazie al sapiente uso del coro, che riecheggia etereo nei versi conferendo una profondità che questi arrangiamenti spogli non avrebbero potuto dare. Nella finale Peking Saint ritorna lo scarno lo-fi degli esordi, voce e riff di chitarra si armonizzano in una nenia silenziosa, forse prevedibile, ma ugualmente emozionante.
Con la consapevolezza di Moon Pix (ed un discreto riscontro indipendente), Cat Power entra nel nuovo millennio con grande energia e sforna un disco maturo (anche se depurato parzialmente di quella magia decadente a lei tanto cara) come You are free (2003), che convince tutti per completezze e profondità; tuttavia io rimango saldamente legata all’emotività istintiva di Moon Pix e alle sue minimali pose vocali e agli arrangiamenti nudi, crudi, sputati come pezzi di un’anima rotta dalle umane sofferenze della vita.

recensito da Camilla

 

 

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