Il numero sette – Fine Before You Came

Ho sempre sostenuto che la carriera dei Fine Before You Came avrebbe dovuto iniziare nel 1984, l’anno in cui i freddi venti di solitudine soffiavano a Firenze sponda Diaframma e qualche tempo più tardi sponda Litfiba: il meraviglioso manifesto della wave italiana oscura ed allergica al successo. Senza alcun preavviso (ma parlando dei Fine Before You Came, ne siamo consapevoli) ecco uscire nell’inverno 2017 Il numero sette, un disco registrato in soli 5 giorni in un piccolo studio milanese, un lavoro nato dall’urgenza, senza in realtà esserlo, come spiega la band stessa dal proprio sito: «noi non riusciamo bene a valutarlo, crediamo che sia semplicemente quello che sentivamo il bisogno di fare e dire in questo preciso momento».
Il numero sette - Fine Before You CamePartendo da queste premesse, è facile constatare come l’eco della rivoluzione dell’indie italiano non abbia per nulla influenzato i Fine Before You Came, anzi, impermeabili a qualsiasi ruffiana esigenza, suonano e tessono trame sonore di straordinaria efficacia, puntando sui pregi consolidati della loro musica e limando le asperità più post-rock con una nenia quasi dark-wave. Il risultato sono sette diamanti grezzi che crescono di ascolto in ascolto, di cui è importante non perdersi nessun momento, di cui è meglio rizzare subito  le orecchie ed aprire il cuore. La voce ricca di pathos di Jacopo Lietti risuona sempre cupa e baritona in un escalation musicale diluita ma decisa: «Chi se n’è andato lo ha fatto di notte e il giorno dopo non c’era mai stato / Per quelli rimasti non c’era mai stato» riecheggia sinistra nella traccia d’apertura, Ultimo giorno, inalando un’atmosfera grigia e funesta, eppure così elegante e decadente negli arrangiamenti e nelle dinamiche.
In Sequel, la mia favorita, le chitarre di Mauro Marchini e Marco Monaci si tuffano in un drowning ridondante, mentre diversi livelli armonici rimpinguano una ritmica scarna, ma proprio per questo affascinante, anche nelle liriche «Tu solo sai quanto poco valgo eppure mi tieni così». Dalle cromie grigie dei The Sound, all’evoluzione post-rock dei Slint, il disco assorbe queste atmosfere senza rimanendone invischiato, nonostante una sorta di commiserazione lucida che conferma pure nell’ermetica Trabocchetti che «Non c’è niente da fare / Son sempre i nostri i trabocchetti in cui amiamo cadere in piedi».

Velocità ed enfasi non cambiano neppure in Come pecore, calcando ancora più la mano (ed i piedi) in una combo di sonorità che sacrificano le distorsioni a favore di una modulazione che si poggia su delay e flanger davvero efficaci, facendo così da contraltare all’innata anima baritona del basso di Marco Olivero delle percussioni secche di Filippo Rieder. Rallentamenti intelligenti si muovono in Come Alberi, ove un leggero crunch soffia freddo sulla schiena, mentre il cantato di fa vagamente più melodico e pulito; mutamenti all’orizzonte nella rabbiosa Penultima notte con quel tocco naïf alla Massimo Volume di Stanze.
Capitolo a parte è la traccia finale, Nonsenso comune, crepuscolare nei suoi sospiri di sei corde, graffiante e lenta discesa agli inferi emotiva, una Love Will Tear us Apart nebulosa e distaccata, abilissima a celare una sensibilità di vita («Quell’abbraccio in cui ci cerco quando gli altri non ci vedono / Credo proprio voglia dire addio»), quella stessa sensibilità che a volte è meglio annegare in litri e litri di effetti, di ritardi e di sovrapposizione: senza parole!

Il numero sette non è un disco altisonante, i Fine Before You Came lo hanno buttato giù così, dall’esigenza e dalla voglia di scrivere una pagina di diario in musica, dai toni più dimessi, eppure così cristallini e maturi: forse oggi ci sfuggirà la magia di questo disco, ma sono convinto che tra almeno un decennio lo ritroveremo ancora meraviglioso e ci malediremo per non averlo capito in quel tardo inverno 2017.

recensito da Poisonheart

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