Young Team – Mogwai

Ascoltare in questi ultimi vent’anni i dischi dei Mogwai è come imparare piano piano a degustare con palato sopraffino qualche piatto ben strutturato: poi diventa difficile abituarsi al pasto quotidiano. Pionieri e forse massimi esponenti del post-rock, il quintetto di Glasgow ha saputo isolarsi in una dimensione artistica talmente aulica e delicata, da conferire via via ai loro lavori un’aura magica, intellettuale, sensibile e socialmente impegnata, trovandoli più a proprio agio con i più grandi compositori contemporanei che con l’hype disilluso in stile Radiohead.
Dalla ricercatezza strumentale, alle distorsioni più disilluse, passando per la complessità di progetti come Atomic (2016), recentemente passato per quel di Ferrara, facendo assaggiare al popolo italiano (unica data dei Mogwai nel nostro paese) la sofferenza e la decadenza di una soundtrack che ha saputo enfatizzare con maggior vigore le immagini crude del documentario “Atomic: Living In Dread And Promise” di Mark Cousin.
Il vizietto della colonna sonora non è nuovo ai Mogwai (vedi il documentario su Zinedine Zidane o quello sulla serie tv Les Revenants) ed Atomic è solo l’ultimo capitolo della parabola musicale e strumentale della band scozzese, che nel 1997 esordiva sulla lunga distanza con un capolavoro di tecnica ed empatia: Young Team.

Mogwai - Young TeamLe chitarre di Stuart Braithwaite e John Cummings (che ha recentemente abbandonato la band), il basso di Dominic Aitchison e la batteria di Martin Bulloch  costituiscono la colonna portante del sound dei Mogwai, che sin da Young Team giocano sì con il classico schema veloce-lento-veloce, ma ne smussano pesantemente i contorni, sorpassando il concetto di canzone post-rock tipica, prendendo dai Sonic Youth la tensione strumentale e dagli Slint la ricerca tecnica e la qualità degli arrangiamenti. Cambi di tempo e di volumi sempre progressivi, la quasi assenza del cantato, brani prolungati nel tempo con armonia ed intelligenza, i Mogwai risultano sempre diretti, nonostante non siano per nulla orecchiabili o facili da prendere. Le cascate di suoni che provengono dalle due chitarre (la Telecaster di Braithwaite dimostra tutta la sua immensa versatilità) creano quel tipico divenire teso ed energico, tanto inaspettato quanto liberatorio, mentre il basso e la batteria giocano sulle tonalità baritone e gutturali, creano un effetto serra asfissiante e tenebroso. Le movenze di Like Herod ballano tra la progressione del volume ed il parallelismo di più livelli sonori pronti per il sorpasso di frequenza, il brano forse più conosciuto di Young Team è un concentrato di libido cobalto e di distorsioni ragionate, senza velleità di rumore o scorribande virtuose di chitarra. Nelle dinamiche dei Mogwai le tastiere di Brendan O’Hare (sostituito poi da Barry Burns) rivestono particolare importanza nei fraseggi più lenti e pacati del disco, nel quale la languida tensione generata dalla sezione ritmica è tanto emozionale quanto sofferta. Katrien è quindi il brano che ha il debito maggiore con gli Slint di Spiderland: il parlato è confuso e sommesso, ma permette al circuito sonoro di volteggiare libero e con grande enfasi, prima di placarsi da solo, senza grossi scossoni o soluzioni drastiche, quali feedback o combo di distorsioni, lasciate invece per altre occasioni.

Se l’apertura con Yes! I Am a Long Way from Home chiariva subito le idee verso cosa l’ascoltatore andava incontro; con la parentesi Radar Maker si rimane incerti e confusi verso una melodia di pianoforte fugace ed imprevista, che però apre le porte alla parte centrale del disco che in Tracy e Summer (Priority version) trova la sua dimensione quadrata. Così se il primo è un intimo divenire nel quale ogni elemento trova la sua estasi armonica, nel secondo la mano calca un ritmo più cupo e malinconico, ma non per questo in antitesi con quanto apprezzato prima. La progressione è sempre ben studiata, e senza voli pindarici, i Mogwai inseriscono distorsioni e virate synth congeniali all’armonia che si è generata. With Portfolio è il diamante grezzo del disco con l’inconfondibile brain-trip che avvolge l’ascoltatore da destra a sinistra, e col quale si disinnescano ogni velleità mainstream, a favore di una ricercatezza e di una sperimentazione già mature per essere esportate con autorevolezza anche nei successivi lavori. R U Still Into It è la nenia chiaramente cantata (voce di Aidan Moffat degli Arab Strab) che risulta essere più abbordabile rispetto alle cavalcate sonore apprezzate in precedenza, tuttavia permane quel senso di isolamento caustico amplificato dalle movenze calde delle chitarre e del piano che troveranno in Come on Die Young (1999) il filo conduttore ideale per arrivare alla completezza assoluta.
Aperitivo di chiusura A Cheery Wave from Stranded Youngsters che non aggiunge nulla rispetto a quanto sentito nell’intero disco, mentre il quarto d’ora finale è tutto di Mogwai Fear Satan che raggiunge la summa epocale ed il climax sonico, attraverso un ritmo tambureggiante di percussioni ed un motivetto ripetuto all’ossessione dalle chitarre e dal basso, mentre si alzano strati di distorsione che s’accumulano l’uno sull’altro come una nebbia claustrofobica, prima di riprendere con rinnovata vitalità il tema del brano, sporcato qua e là da feedback controllati e da echi di fiati di Pan.
Young Team è certamente il disco dal quale tutto è iniziato, e dal quale lentamente ma non completamente, i Mogwai si sono man a mano distanziati, dalle vibrazioni celesti di Hardcore will never die, but you will (2011) alle più recenti ricerche digitali di Rave Tapes (2014), la band ha sempre alzato l’asticella verso una musica che toccasse i cieli e smuovesse le corde emotive più nascoste, senza snaturare la propria propensione al pacato dinamismo e senza apportare rivoluzioni musicali estreme … ottenendo sempre il gradimento del buon intenditore di musica!

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

 

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