Up the Downstair – Porcupine Tree

Nato come one-man-project di Steven Wilson (e solo da Up the Downstair allargato a 4 elementi), Porcupine Tree è la mesmerica reazione prog-rock inglese all’avanzare mainstream dell’alternative rock del nord-ovest degli States; ma in una certa misura è anche assimilabile ad una sorprendente ortodossia della nascente scena shoegaze britannica.
Sin dal 1987 Steven Wilson bazzica tra morsi di melodia gilmouriana ed un intercedere tipicamente psichedelico in una serie di progetti paralleli ed esperimenti che parzialmente sfoceranno in On the Sunday of Life… del 1992 (per l’eclettica Delirium Records); bissato l’anno successivo con il più omogeneo e rotondo Up the Downstair, manifesto artistico dei nineties prog inglesi e prosecuzione del processo neopsichedelico avviato dai Spaceman 3 e consanguinei.

Up the Downstair - Porcupine TreeNonostante il discreto spessore del progetto parallelo No-Man con Tim Bowness, Steven Wilson, tassello dopo tassello – e quasi inconsapevolmente-, getta le basi per una renaissance del prog-rock britannico, attingendo senza pudore tanto dalla musica elettronica quando dalla dub più acida e minimale. Nella parabola psych-anfetaminica di Up the Downstair, Steven Wilson inanella rintocchi floydiani puri (Small Fish : Porcupine Tree = Comfortably Numb : Waters), a brevi bozzetti sperimentali che fanno spesso ad apripista a componimenti tridimensionali dilatati nel tempo, come la nevrotica Synesthesia o l’obliqua Always Never; trovando un’armonia androgino-darkeggiante quasi inedita, eppure allo stesso tempo incline al deja-vu’ da proto-retromania.
Lontanissimo per approccio e forma agli ululati canterburiani -eppure affine nell’imprudenza alla sperimentazione-, Steven Wilson esplora l’innovazione digitale favorito dall’entusiasmo dello zeitgiest elettronico della Londra trainspottiana; ne coglie i tratti salienti senza suonare estremista o pionieristico, avvalendosi -furbescamente- di un vecchio volpone della wave anni ottanta come Richard Barbieri (Gentlemen Take Polaroids o Tin Drum vi dicono niente?). Quest’ultimo “mette le mani” negli intensi 11 minuti di Up the Downstair, gorgogliando sinestesie delicate e perentori sbalzi ritmici, verso un oblio rivelatore e sensoriale. Not Beautiful Anymore ne è una conferma in formato radiofonico, mentre le finali Burning Sky e Fadeaway certificano la ricerca di un nuovo linguaggio musicale che non escluda a priori il rock, ma che lo inglobi in esso, mimetizzandolo tra effetti spaziali ed echi cavernosi.

La qualità principale di questa opera prima dei Porcupine Tree (completati dalla linea ritmica di Colin Edwin al basso e Gavin Harrison alle percussioni) è l’armonia d’insieme che si snocciola in una manciata di ottimi brani lunghi, per nulla pretenziosi, ma che segnano il primo timido alzamento di quell’asticella che da qui in poi sarà portata sempre più in alto (toccando il culmine, stavolta sì pretensioso, con In Absentia).
Up the Downstair rimane un classico, non solo per la portata dei singoli brani, piuttosto per l’idea di fondo che li accomuna: un’ambiziosa spirale che voleva ridare splendore al rock progressivo e celebrale, in contrapposizione all’istintivo alternative-rock di cui le classifiche del 1993 trasudava. L’intento forse non sarà pienamente riuscito (il brit-pop già incombeva), ma a Steven Wilson va dato il merito di aver ispirato i rami meno conosciuti della musica sperimentale inglese ed europea.

recensito da Gus

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