Turn on the Bright Lights – Interpol

We should take a trip now to see new places
I’m sick of this town
I see my face has changed
Mi chiamo Camilla e racconto della musica che riposa nel fondo della mia anima … e la condivido con voi …

Nella carriera degli Interpol risiede quella che io chiamo la differenza tra independent e indie-rock; e la genesi di tutto questo ha origine con Turn on the Bright Lights (2002), uno dei dischi preferiti dalla combriccola di Pitchfork. Se la prima cosa che salta all’orecchio sono i palesi riferimenti al primo post-punk inglese di targa Joy Division, è anche vero che dopo aver appurato ed assimilato il tono baritonale di Paul Banks le somiglianze con la band di Manchester finiscono qui. La chitarra di Daniel Kessler smuove riff cristallini e decadenti, creando grazie ad una sezione ritmica secca e pulsante (Carlos Dengler e Sam Fogarino) uno spleen languido ed apocalittico. L’esordio degli Interpol esce nell’estate 2002 in una New York ancora ferita dalla tragedia dell’11 settembre, condensandone forse gli umori e la cupezza di fondo: è importante sottolineare questo, per il rapporto viscerale tra la band e la propria città (e non solo per il brano NYC), rimarcato dal look, metropolitano ma posato, del quartetto e da una certa compostezza naïf tipicamente newyorkese. La Matador Records ci vede giusto e pubblica il disco contemporaneamente negli Stati Uniti e nel Regno Unito (ove la somiglianza di fondo con il sound dei Joy Division vuole essere rimarcata), trovando subito il plauso della critica e del pubblico.

turn on the bright lights - interpolSenza essere trainato da un singolo importante, Turn on the Bright Lights corre sulla lama alternativa influenzata non tanto dalla wave inglese, quanto dalla stessa sensazione di incertezza ed inquietudine. La voce calda di Paul Banks si fa portavoce di uno stile east-coast che troverà nel vecchio continente una controparte spesso bersagliata dalla critica (i pur simili, ma decisamente più melodici, Editors di Tom Smith); un hype generazionale rimarcato dalle melodie di Daniel Kessler, abile a mettere insieme riff acuti e ripetitivi, portando ad estreme conseguenze lo stile, in alcuni casi più morbido, di altri pionieri dell’independent inglese come Johnny Marr o John Squire.
Così la già citata NYC (New York Cares) tuona come una lenta nenia che si crogiola sulle maschere d’ipocrisia («I had seven faces / Thought I knew which one to wear»), sussurrando un requiem melanconico nel chorus, ove cori lontanissimi ritornano dal rimbombo dell’eco. La tensione di questo brano chiarisce bene il tema e la dinamica del disco, un’energia profonda e sommessa che a questo punto ha poco da condividere con l’epilettica nevrosi di Ian Curtis.
Sfatato il primo grande mito, cito l’istrionismo di PDA e quell’urgenza metropolitana di combattere la solitudine dopo la fine di una relazione («Sleep tight, grim rite, we have two hundred couches where you can…»): batteria e basso costruiscono la cavalcata del ritornello che Paul Banks doma con carisma, mentre stilettate di chitarra irrompono a spezzare la linearità del ritmo, trovando nel finale un bell’incastro tra i diversi livelli armonici.
Il tono da marcetta in Say Hello to the Angels gioca sul flusso di coscienza e di incastri ben riusciti, mentre le due parti di Obstacle pulsano sulle stesse note costruendo così un sound compatto e senza ripensamenti; gli Interpol mantengono la loro linea, senza tentare nuove strade più orecchiabili.
La solennità di Stella was a driver and Stella was always down è forse il migliore momento del disco, la chitarra squillante e le percussioni rombanti creano una melodia cristallina e apatica in cui è davvero dolce abbandonarsi («She was all right because the sea was so airtight, she broke away»); l’uno-due è presto servito con la sotterranea Roland, unico vero e proprio pezzo influenzato palesemente dalla dark-wave inglese.
Le qualità di interprete di Paul Banks vengono manifestate con buona lena in Leif Erikson (colui che per primo, intorno al 1000 a.C. toccò le sponde dell’America), brano di chiusura intriso di una malinconia lancinante verso i muri sentimentali eretti dalle persone come labile autodifesa, il verso finale «My love’s subliminal» racchiude in una manciata di parole molto del tema di questo disco.

L’unica pecca di Turn on the Bright Lights è la mancanza di una vera e propria hit che trainasse il disco al successo mainstream; tuttavia questo bellissimo “difetto” (forse per questo piacque tanto a Pitchfork) celava un’ omogeneità di emozioni e di tensione che gli Interpol non ritroveranno più. Il successivo Antics (2004, sempre con la Matador) trova in Slow Hands la hit che mancava (ed il conseguente approdo ad una major), perdendo man a mano  la linearità compositiva che si poteva percepire nell’esordio. Our Love to Admire (2007, pubblicato con la Capitol) nonostante un buon inizio (Pioneer to the Falls e No I in Threesome) si svuota di energia e credibilità, limitandosi al compitino fintamente hype, gettando le basi (assieme all’uscita di An End as a Start degli Editors) a quello stile indie-rock, venduto come marchio giovanile sulle riviste mainstream o per le tv musicali ad alta rotazione. Peccato davvero …

 

recensito da Camilla
Camilla heartofglass

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