These Charming Men: pop ed ambiguità inglese !

Non è sempre facile decifrare i gusti inglesi, in fatto di musica. E non solo direte voi!  Eppure la terra di Albione ha dato i natali a quasi tutti i migliori esponenti del rock e dintorni, li ha sapientemente esportati, (la British Invasion degli anni ’60 vi dice nulla?), ma solo in pochi hanno saputo mantenere la propria  flemma inglese. Il primo amore non si scorda mai, ed i Beatles sono diventati prima l’icona di Liverpool e poi quella dell’intera isola, non tanto quanto i Rolling Stones, oramai “americani d’adozione”! E dopo …?

The Smiths - The Smiths 1984Nella prima metà degli anni ’80 è Manchester a prendersi la scena musicale inglese (precursori furono i Joy Division che venivano dalla periferia) con un rock più intimista che veniva dai piccoli club. Sono The Smiths la massima espressione di un primo timido movimento indipendente che sfocerà poi nel brit-pop dei primi anni novanta. Il connubio artistico Morrissey/Marr miscela l’ambiguità sessuale ed il sarcasmo del songwriter con la particolare tecnica chitarristica del secondo, che rimanda addirittura ai jingle-jangle (qui decisamente elettrificati!) dei Byrds. Completati da Andy Rourk al basso e Mike Joyce alla batteria, gli Smiths iniziano a far parlare di sé nelle piccole ballroom e nei circoli di musica indipendente. Lo stile tardo-romantico di Morrissey (una sorta di Oscar Wilde spettinato) e delle liriche incentrate spesso sulla working-class inglese (il tema della “gente comune” è evidente anche nella scelta del nome, Smiths è il cognome più diffuso in Gran Bretagna) hanno riacceso la luce all’indie-pop inglese senza i trucchi alla Ziggy Stardust o la ribellione di Rotten o i colori della new-wave nascente. Una serie di singoli prodotti dalla Rough Trade (da sempre molto sensibile all’indipendent!) portano gli Smiths addirittura al Top of the Pops londinese, con Morrissey che si esibisce con un mazzo di gladioli in mano al posto del microfono, piuttosto che simulare un cantato in play-back. E’ la rottura definitiva tra quel pop dalle giacche sgargianti e dalle coriste sullo sfondo e la musica affascinante e socialmente attuale degli Smiths. L’omonimo del 1984 raccoglie quanto di meglio seminato dalla band nei live dei piccoli club di Manchester;  una pietra miliare per gli amanti dell’indipendent, intriso tanto di nostalgia quanto piacevolmente orecchiabile. This Charming Man (uscita solo come singolo, non incluso nell’esordio per il mercato inglese) è un manifesto edonista e palesemente wildiano, ed eleva Morrissey ad icona controcorrente del movimento gay. What Difference Does It Make? e quel loop di chitarra inconfondibile, oppure Hand in Glove (nella cui copertina del singolo compare un uomo nudo!) confermano la bontà del disco, nonostante qualche controversia durante le registrazioni che non soddisfa a pieno gli Smiths (che da qui in poi avranno un controllo totale sulla loro musica).
Siamo nell’epoca del rock da grandi arene e da concerti da stadio, eventualità non troppo affascinante per chi come gli Smiths, venendo dalla Manchester proletaria, preferiscono il contatto diretto con il pubblico. Le successive pubblicazioni non intaccano la qualità della loro musica:  Meat is Murder (1985) e The Queen is Dead (1986), sono dischi dai titoli forti e con la precisa mission di scioccare e far riflettere la gente comune. Il vegano ed anti-monarchico Morrissey diserta persino le buone intenzioni della Band Aid di Geldorf (massimo evento musicale del 1985), mostrando l’ipocrisia di fondo del progetto e continuando verso quella direzione ostinata e contraria che lo porterà ad essere un’icona diversamente affascinante degli anni ’80: The Boy with the Thorn in His Side, Bigmouth Strikes Again e That Joke Isn’t Funny Anymore sono altri passaggi assolutamente fondamentali per il pop-rock inglese. Tuttavia nel 1987 il sodalizio Marr / Morrissey termina tra rancori ed incomprensioni (persino in tribunale, nella seconda metà degli anni ’90); l’eredità musicale (e chitarristica) degli Smiths viene presa solo in parte da un’altra band di Manchester…

Dall’aspetto quantomeno pubescente, gli Stone Roses sono la stranita e procace band che aprirà le danze per quello che sarà il decennio a venire. Ian Brown è il classico ragazzetto con i capelli dritti e tagliati a scodella, il resto è pura effusione rock-pop, aggressiva e soffice, bubblegum, evocatica, tremendamente teens. L’esordio omonimo nel 1989 (vedi recensione) è la summa di un movimento e di una generazione in cerca di identità e con I wanna be adored e I am the Resurrection quasi quasi ci riescono, vedasi il concerto-evento all’isola di Spike; tuttavia ci vorrà qualcosina di diverso dalle fangose acque del fiume Wishkah, sù verso Seattle, in un altra galassia, a schiarire per qualche anno la nebbia. Agli Stone Roses viene riconosciuto il ruolo di precursori del brit-pop: lo stile di John Squire alla chitarra getterà le basi per quello che saranno Oasis e Blur alla sei corde. La pausa forzata per controversie legali con la casa discografica obbliga la band a fermarsi dall’attività live nel momento migliore della loro carriera. Ritornano nel 1994 con The Second Coming e con la stralunata Your Star Will Shine, ma non convincono come il precedente lavoro, «il momento è ora» urlava Brown davanti a migliaia di spettatori durante il festival dell’Isola di Spike, nel maggio del 1990… ma gli dei del rock l’hanno pensata diversamente.

Il testimone passerà nelle mano tremolanti di Jarvis Cocker e dei suoi Pulp. Nati a Sheffield alla fine degli anni ’70, rimangono nell’anonimato per più di un decennio, fino a Common People geniale singolo no-sense, vagamente ironico alla maniera di Morrissey. Il 1995 sorride ai Pulp e Different Class rappresenta un capitolo interessante nella discografia inglese (da segnalare anche il precedente His ‘n’ Hers). Minimali, oscuri, affascinanti come un incrocio tra Bowie e i The Cure, toccano l’apice con Common People appunto, ma poi sono incapaci di ripetersi in piena brit-pop, platonicamente da loro stessi partorita; sfornano sì buoni singoli ma senza lasciare troppo il segno. Simile fortuna ce l’hanno, seppur in ambito appena diverso i Primal Scream di Bobby Gillespie (ex The Jesus and Mary Chains). Screamdelica (1990) è un piccolo capolavoro pop mescalinico sopravvissuto agli anni ’80, ricco d’effetti e di stratagemmi elettro-techno: Loaded e Come Together sono i postumi di un ecstasy party, effimeri, volatili, densi di chimica, tribali nelle movenze: esclusivamente per gli amanti del genere!
Suede - London SuedeIl brit-pop è alle porte, scalpitano Oasis, The Verve, Blur, e ai confini di questo movimento ci sono certamente gli Suede di Brett Anderson, che senza inventare nulla, mescolano un pop androgino (grazie al cantato sofferto e affogato dello stesso Anderson) orecchiabile, easy, amabile, sexy. Il self-titled del 1993 (che darà il via a quello che oggi conosciamo come brit-pop), Dog Man Star (1994) e Coming Up (1996) regalano i capitoli più interessanti della loro discografia. Animal Nitrate (e l’esibizione shock ai British Awards londinesi 1993, «Avevo voglia di scrivere una canzone con un messaggio sessuale perverso e portarla nella top 10»),  We are the pigs di matrice più rock e sperimentale e l’universale The Beautiful Ones, capolavoro pop da charts intrisa di ambiguità e vanità, sono le facce dicotomiche di una stessa medaglia che si toglie gli ultimi brandelli di elettronica dalle mani. Trash e Lazy confermano l’attitudine degli Suede, una natura per certi aspetti simile a quella degli Smiths, seppur fatte le dovute proporzioni.
Il resto sarà prerogativa del brit-pop come lo conosciamo oggi, e quindi via libera ai Gallagher, ad Richard Ashcroft e Damon Albarn, alle loro diatribe, ai loro dischi, ai loro successi, alla loro discesa e risalita. Avete capito insomma …

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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