The Velvet Underground & Nico – The Velvet Underground

L’album con la banana” questo è l’epiteto che comunemente si sente per The Velvet Underground & Nico.
Il primo disco dei Velvet Underground è anche il primo esempio di come arte figurativa e musica si fondano, creando una poltiglia soporifera che è vero, passò inosservato ai loro contemporanei, ma che oggi è una pietra miliare di indiscusso valore. A dire il vero questo connubio arte-musica non nasce dalla volontà di Warhol. L’idea inizialmente fu di Paul Morrissey, film maker e stretto collaboratore dell’artista pop, e non aveva degli scopi per così dire “nobili” che riguardassero arte o cultura: in pratica Warhol entrò nel rock solo per fare soldi! L’incontro fatidico si tenne al Cafè Bizarre, in una delle prime serate della band. I Velvet Underground erano per look e per impronta musicale, quanto di più lontano ed astratto rispetto alle mode del momento. Lou Reed era il profilo del perfetto pervertito e John Cale lo seguiva a ruota, l’ambiguità dell’androgina Maureen Tucker lasciava senza fiato, come il nichilismo di Sterling Morrison.

Un feeling musicale che solo qualche mese prima pareva impensabile. John Cale era sicuramente il musicista per così dire più “esperto”, avendo suonato nei Dream Syndiacate con LaMonte Young che lo aveva iniziato al “droning” (ossia suonare una singola nota per un tempo lunghissimo a ripetizione). La leggenda narra che nel 1965 Lou Reed aveva già scritto due pezzi cruciali come Heroin e I’m Waiting for the Man, tuttavia estrapolati dal contesto velvettiano che conosciamo, apparivano come pezzi figli di un folk distorto, un folk in acido. Il commento iniziale di John Cale non fu dei più lusinghieri: «Io non lo ascoltavo assolutamente perché non me ne fregava un cazzo della musica folk. Odiavo Joan Baez e Bob Dylan, ogni canzone era una fottuta domanda!». Salvo poi cambiare idea e rimanere assolutamente impressionato dalla crudezza e dalla maniacalità dei testi.

The Velvet Underground & Nico - The Velvet UndergroundIl disco si apre con Sunday Morning una ninna-nanna apparentemente sdolcinata intrisa di malinconia e cinismo, nel quale lo stile dei Velvet Underground è palese. Suoni altissimi e acuti, a tratti sgraziati, escursioni sonori con massiccio uso di droning, ed essenziali parti di batteria e basso.
Tuttavia la voce di Reed non venne ritenuta melodica, né la sua figura capace magnetizzare il pubblico, allora l’entourage della Factory si ricordò di una ragazza tedesca con un ottimo curriculum di fascino (tra i suoi amori Brian Jones, Bob Dylan, Alain Delon) e una presenza eterea. Nico entra nella band come punta di diamante in brani pregevolmente “indossati” come Femme Fatale o nella nevrotica Run, Run, Run. Superato il disappunto di Reed, alle presa anche con  la difficile gestione dei rapporti con Cale.

Mentre tutti nel 1966 inneggiavano all’amore e alla pace, Reed cantava di eroina, perversione sessuale, in liriche tenebrose ed acide allo stesso tempo. Heroin ricalca fedelmente un ritratto generazionale autodistruttivo che non ha eguali: una lunga litania isterica che infetta ogni parola e ogni singolo suono, grazie ad un non-ritmo cadenzato, ripetitivo, maniacale: «And I feel just like Jesus’ son». Di tema analogo I’m Waiting for the Man, nel quale è descritto in maniera maniacale il rapporto con gli spacciatori di droga, un ritratto fedele ed impareggiabile di New York che Reed saprà ripetere a distanza di un lustro con Transformer.

La tendenziosa Venus in Furs s’ispira al romanzo di Pauline Reage Histoire d’O e alla celebre novella Justine del marchese De Sade. Nell’evoluzione del brano si delineano 3 personaggi: la Dominatrice, Severin e il Nero Principe Russo. Gerald Malanga, Ronnie Cutrone e Mary Woronov frequentatori della Factory di Warhol decisero di allestire una parodia sadomaso del brano con l’utilizzo di fruste mentre la band dietro suonava. Nacque così la Exploding Plastic Inevitable, dapprima applaudita come novità, poi snobbata con la parabola discendente dei seguaci velvettiani. Un pathos distorto avvolge il brano e fa notare la con acume la differenza tra la melancholia di Reed e la raffinatezza di Nico. Ibrida in questo senso appare All Tomorrow’s Parties, ottimo compromesso tra la musica essenziale pensata da Reed-Cale e l’esigenza decorativa e corposa di Nico. There she goes again si perde con facilità nella memoria come I’ll be your mirror, che si differenzia solo dall’interpretazione della biondona tedesca. Ottima ma complessa The black angel’s death song, mentre si chiude con la dedica di Reed al “mentore” Delmore Schwartz con la clausfrofobica European Son.

Non ci sono parole per definire questo disco, ove i difetti sono punti di forza e le sue idee innovative furono da lezione per le generazioni musicali successive. Un album che di pop ha solo la copertina firmata da Warhol, ma che dovrebbe essere insegnato a scuola, non solo nell’ora di musica ma anche in quella di storia.

 

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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