Gli Stones degli anni ’60 non solo quelli degli anni ’70: The Rolling Stones (1969-1972)

Il 1969 si rivelerà per gli Stones un anno particolarmente intenso. E nero.
Brian Jones sempre più ai confini della band, viene liquidato da Jagger & Co. nel giugno dello stesso anno. Tuttavia partecipa molto sporadicamente alle registrazioni di Let it Bleed. Il 3 luglio, mentre il resto del gruppo è ancora in studio, il corpo di Brian Jones viene ritrovato galleggiante nella sua piscina ad Hartfield. Lo shock è decisamente enorme. E la notizia fa il giro del mondo. Paradossalmente la tragica morte di Jones sarà solo la prima di tante che investiranno il mondo del rock giovanile (Hendrix, Joplin e Morrison). I sogni della generazione dei fiori stanno per finire. E’ solo questione di tempo.

La conferma arriva il 6 dicembre del 1969 ad Altamont vicino San Francisco. L’occasione è un festival in stile Woodstock, nel quale in un solo giorno, Rolling Stones, Jefferson Airplane, Santana, Grateful Dead e altri, si esibiscono gratuitamente. Arruolati come servizio di sicurezza i poco rassicuranti Hell’s Angels, noti per essere particolarmente violenti e facili alla rissa. Le cose precipitano. Mick Jagger si prende un pugno in faccia appena sceso dall’elicottero, e dopo un bel ritardo gli Stones si esibiscono finalmente sul palco, infiammando ancora di più il clima bollente. Così Meredith Hunter sale tristemente alle cronache; durante Under my Thumb, il ragazzo di colore viene accoltellato da un Hell’s Angel. E i sogni s’infrangono. Solo dopo si saprà che Hunter brandiva in mano un arma da fuoco.
Gimme Shelter suonerà sinistramente come una beffa, nei versi «War, children, it’s just a shot away / It’s just a shot away». Let it Bleed infatti era già nei negozi nel dicembre 1969, quindi niente di premeditato. Anzi, la canzone ha un chiaro significato contro la guerra con un retrogusto lievemente apocalittico, Vietnam docet.

«The floods is threat’ning
My very life today
Gimme, gimme shelter
Or I’m gonna fade away»

E’ il brano di punta del disco. Pungente e raffinato allo stesso tempo: dai lampi di genio di Richards ai cori caldi e soul di Merry Clayton.
Let it Bleed - The Rolling StonesLove in Vain è l’immancabile omaggio a Robert Johnson che in quasi ogni disco trova posto. Una cover ben eseguita da dei “bianchi”; questo in fondo viene da pensare. Manca tuttavia il calore dell’originale ma questo è ovvio, nonostante il mandolino di un certo Ry Cooder. Live with me è il contributo di Mike Taylor alla causa Stones. Il chitarrista è il sostituto ufficiale di Brian Jones e in questo brano decisamente r’n’b si può apprezzare una grande varietà sonora, grazie anche al sax suonato da Bobby Keys.
La tittle-track, chiude il lato, ed è un classico della discografia della band. Parte con il piano suonato Ian Stewart che accompagna le scorribande rock di Richards e Wyman; eppure sembra quasi un brano da saloon, scanzonato ma potente. Dissipato da numerosi riferimenti a droghe e sesso da «She said, “My breasts, they will always be open / Baby, you can rest your weary head right on me » sino « When you drunk my health in scented jasmine tea» fu accantonato come possibile singolo.

Nel lato B si può apprezzare l’esiguo contributo postumo di Jones, in Midnight Rambler e, nella leggera come etere, You got the Silver in cui suona l’esotica autoharp, (l’arpa con i tasti, volgarmente parlando).
A dare senso al lato ci pensa You can’t always get what you want. I cori della London Bach spruzzano delicatamente un aura solenne al brano, che parte piano pian acustico con la sola voce di Jagger. Poi esplode in un mezzo gospel, in cui Al Kooper si esibisce al piano. Ricco di sonorità il brano è completo a tuttotondo, con le percussioni caraibiche suonate da Rocky Dijon.
Una conclusione maestosa per un album maestoso, quindi. Let it Bleed è il lavoro più omogeneo, in cui il produttore Miller si esalta in tutta la sua abilità. Gli Stones non vengono snaturati, nonostante i tantissimi ospiti, anche illustri; inoltre Mick Taylor esordisce bene e supera l’esame entrando di diritto nella famiglia Stones. Senza dimenticare la geniale cover del disco, che non è certo seconda rispetto alle copertine marchiate Beatles.
Merita di comparire tra i migliori album di tutti i tempi, ed è una delle perle della fine degli anni ’60: nonostante quel 1969 sia stato nero !

Gli Stones degli anni ’60 non sono gli Stones degli anni ’70, dicevo.
Sticky Fingers - The Rolling StonesSchiettamente, solo così si può comprendere questo nono lavoro della band inglese. Sticky Fingers, viene registrato tra Londra e gli States, e per la prima volta esce per l’etichetta personale degli Stones, naturalmente omonima, nata un anno prima, nel 1970. E’ il primo album dopo la morte di Brian Jones, ma oramai l’istrionico chitarrista fa parte del passato della band: adesso c’è Mick Taylor !
L’unica cosa certa è che questo disco rompe decisamente con il passato. Via tutta la panoramica di strumenti esotici e orientali, che facevano capolino qua e là anche nelle canzoni più famose; il r’n’b finora imprescindibile nei lavori della band fa spazio ad un concreto e maturo rock ‘n’ roll. Richards viene aiutato dall’immensa abilità di Taylor, nel tessere le trame sonore, e questo sembra rassicurare e rinvigorire tutto il gruppo; forse per la prima volta i Rolling Stones sono una band sicura di sé e delle proprie capacità.
Tuttavia Sticky Fingers è un lavoro oscuro, sofferto per certi aspetti e denso di riferimenti a droga e sesso, affrontati, stavolta, da un punto di vista differente, più maturo, rispetto alle precedenti esperienze. Brown Sugar è senza dubbio l’icona di questo disco e con ogni probabilità il loro migliore sforzo compositivo di tutto il decennio. L’attacco iniziale decisamente rock, è il preludio a melodie secche e dirette, accompagnate da liriche che non badano al sottile. Jagger ha definito questa canzone: «il connubio e la contraddizione tra donne e droga». Nel gergo, “lo zucchero marrone” è nient’altro che una variante da laboratorio dell’eroina. Il testo, tuttavia, non si esaurisce ai temi sopraccitati, ma allude inoltre pericolosamente al sadomasochismo «Scarred old slaver know he’s doin’ alright/ Hear him whip the women / Just around midnight» e alla verginità «… bet your mama was a tent show queen / And all her boyfriends were sweet sixteen». Come sempre senza limiti, senza pudore, ed estremamente diretti.

Sway è un blues lento e rockeggiante, i cori di sottofondo conferiscono al brano una sorta di solennità. Tra queste voci, pure quella di Pete Townshend, chitarrista degli Who. La ballata Wild Horses, nasce quasi esclusivamente acustica: dolcissima ed emozionante, si dice che sia dedicata da Jagger a Marianne Faithfull, tuttavia non ci sono conferme. Comunque sia rimane una splendida canzone d’amore «Graceless lady you know who I am / You know I cant let you slide through my hands».
Interessante ciò che gli Stones fanno di Can’t you Hear me Knocking, un aggressivo rock in cui tutto il talento di Richards e Taylor esplode in riff acidi ed essenziali. La voce pacata di Jagger è il preludio per un grande brano, la cui ciliegina è la maestosa jam session centrale in cui il sax di Bobby Keys ha un ruolo d’onore.

Il lato B si apre con la maligna Bitch; ancora una volta donne e droga sono il tema centrale di un rock-blues compatto e ben arrangiato con tanto di tromba, suonata da Jim Price. Il riff portante di Richards è semplicemente qualcosa di orgasmico, il resto lo dicono questi infernali versi: «Im feeling drunk, juiced up and sloppy / Aint touched a drink all night». Tutti i brani, come sempre, sono firmati da Jagger/Richards tranne che per Sister Morphine, in cui la Faithfull partecipa come songwriter: «Tell me, sister morphine, how long have I been lying here?». Stavolta in primo piano è il rapporto controverso ed interiore con le droghe, che implode nella personificazione della droga stessa: «Please, sister morphine, turn my nightmares into dreams». Da ballata acustica (con Jagger alla chitarra) si trasforma ben presto in un rock a forti tinte slide, con la partecipazione di Ry Cooder. Brano tuttavia abbastanza oscuro e riflessivo.
A chiudere la celestiale Moonlight Mile dalle atmosfere vagamente orientaleggianti. È uno dei pezzi migliori del disco, intenso e intelligente, riflette le indecisioni e i dubbi della rockstar verso la vita. Un testo dai molteplici significati «Just another mad, mad day on the ro-oad I am just living to be lying by your side»: è la conferma della ritrovata maturità degli Stones. Crepuscolare !
Nel 1971, Europa, USA e persino il mercato australiano furono investiti dall’enorme successo di Sticky Fingers (n.1 nelle charts mondiali). Gli Stones cambiano ancora pelle e questa risulta essere la pelliccia migliore. Concreti, maturi, riflessivi. Non c’è da stupirsi se questa band all’alba del 2010 è ancora una grande band. Un disco come questo, con la cover “alla maniera” di Warhol, è semplicemente da antologia ! Ancora oggi, forse un po’ meno l’erezione …

Se nella premessa dissi che gli Stones degli anni ’70 non erano quelli del decennio precedente  (e a parte l’ovvia new-entry di Ron Wood) è un affermazione per certi versi vera. Stilando questa ultima recensione, che puzzava di commiato, decisi che difficilmente sarei ritornato sugli Stones: il meglio era già stato scritto! Eppure rimaneva il tarlo di quel Exile on Main Street che mi pulsava nelle meningi e non mi faceva dormire; una questione musicalmente tosta … Un album che mise in affanno la critica musicale allora contemporanea; il doppio del 1972 non aveva un filo conduttore, non aveva hits memorabili (almeno alla Brown Sugar, per intenderci), eppure ululava un blues keithiano che per chi ama la sei corde è libido al primo ascolto.
Exile on Main street - The Rolling Stones“L’esilio” si concretizza nel biennio ’71-’72 quando la band fu costretta ad emigrare in terra francese per problemi con il fisco albionico. Non a caso la storia del rock è fatta di luoghi, e la tendenza dei primi anni ’70 era insolitamente quella di registrare in grandi ville semi-abbandonate ma con tutti i comfort da star (vedasi il VI dei Led Zeppelin). La sfarzosa residenza in questione è Nellcôte a Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzura, l’oasi felice di Keith Richards, un posticino intimo e surreale nel quale si permea il sentimento lascivo che vive sottopelle a Exile.
La vacanza-lavoro degli Stones permette di buttare giù una serie di composizioni originali e ricche di infatuazioni (non ultima quella verso il country, ad opera dell’ospite Gram Parsons), mentre drugs&alcool scorrevano a fiumi. Un approccio molto jazz, sia nella stesura che nel parto di alcuni brani, eppure ancora oggi Jagger lamenta: «Exile on Main Street non è uno dei miei album preferiti, anche se poi ha un feeling del tutto particolare. Non sono sicuro che i pezzi siano così validi, nell’insieme però è un buon disco».

L’album contrariamente a quanto si pensa non è stato registrato per interno in Francia, anzi alcuni brani risalgono alle sessions di Sticky Fingers agli Olympic Studios, successivamente scartati o riadattati: ecco forse spiegato la mancanza di coesione rispetto ai lavori precedenti. Tuttavia il disco fotografa chiaramente il momento particolare e delicato della carriera degli Stones: l’equilibrio precario dell’asse creativo Jagger-Richards specialmente per l’abuso di eroina di quest’ultimo, i guai con il fisco e le ripercussioni pubbliche (per esempio l’impossibilità di tornare a Londra), e non ultimo ci metterei l’implosione dei Beatles (gli antagonisti magnetici per antonomasia, una sorta di yin-yang universale, ora irreversibilmente amputato); insomma gli anni ’60 erano finiti in tutti i suoi ideali …
Il risultato è un disco con ottimi momenti e pause interlocutorie: Rock off e Tumbling Dice rappresentano i classici brani rythm ‘n’ blues alla Stones; Rip this Joint si concede un’ inaspettata ora d’aria rockabilly, mentre Shake your lips omaggia Slim Harpo ed in generale tutto il blues, impressione rimarcata anche da Sweet Black Angel, o dal più canonico Ventilator Blues scritto a sei mani, con Mick Taylor.
Territori inesplorati vengono rovesciati con alterne fortune; Sweet Virginia risente probabilmente delle dritte country di Gram Parsons all’alunno Richards, brano spettacolare che sale come un lento respiro d’anima, contrariamente al pasticcio di Shine a Light: eppure entrambi provengono dalle sessions di Sticky Fingers!

L’idea che mi sono fatto di questo disco, non è tanto quella dell’assemble nel periodo di poca ispirazione. Piuttosto credo che la band si trovasse dentro un enorme spazio creativo (che ne dite di All Down the Line?), nel quale tuttavia regnava il caos: i brani sono frenetici e confusi ma ricchissimi di sonorità (non a caso nelle rifiniture ai Sunset Sound losangeliani, vi parteciparono numerosi ottimi turnisti), con il risultato finale di snaturare leggermente il congeniale sound che la band aveva esibito nel decennio precedente.
Eppure oggi questo doppio istrionico album suscita la soddisfazione di tutti, nonostante Jagger continui a sostenere: «La cosa strana è che Exile piace a tutti, e sinceramente non so perchè …».

Puoi ascoltare i Rolling Stones qui

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

 

Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.