The Boatman’s Call – Nick Cave and the Bad Seeds

E’ l’ennesima svolta nella carriera di Nick Cave, la fase più introspettiva e spirituale fin qui avvenuta. Dopo una sofferta disintossicazione dall’eroina sul finire degli anni ottanta ed un successo commerciale (supportato anche da Mtv) con Murder Ballads (1996), nella testa del songwriter australiano si fa largo il cruccio più difficile da risolvere per l’umanità intera: il rapporto con Dio.
The Boatman's Call - Nick Cave and the Bad SeedsThe Boatman’s Call non è solamente un lavoro voce + piano che si muove lentamente verso una deriva anti-agnostica, ove l’amore è una sorta di mistica panacea; è un disco curato nei minimi dettagli cantato da un uomo che decide di fermarsi un istante a riflettere su quello che lo circonda e che lo ha toccato nel profondo dell’anima. Un bisogno d’amore maturo nella sua confusa ed ancora non ben definita espressione -sicuramente elaborato e conflittuale-, figlio soprattutto di un vissuto controcorrente e reazionario, che vede lo stesso Cave divorziare con Viviane Carneiro dopo l’uscita di Murder Ballads, per flirtare con PJ Harvey (durante la realizzazione del brano Henry Lee), per poi conoscere (e successivamente sposare nel 1999) la modella Susie Bick.
La spiccata mancanza di certezze conduce perciò Nick Cave ad esplorare meandri nascosti del proprio animo, lasciandosi andare alla “chiamata del barcaiolo” con grande eleganza e con una rediviva (ed insospettabile) fede, che alla fine del disco somiglia più ad una predicazione fatalista piuttosto che ad un abbandono al cristianesimo. Le tessiture chitarristiche di Mick Harvey e Blixa Bargeld glissano verso un sotto strato armonico apparente fragile tuttavia indispensabile, mentre la sezione ritmica pulsa e crea una crepuscolare cupola facendo ancora di più riecheggiare le delizie del pianoforte. A contorno la nostalgica nenia del violino di Warren Ellis (ormai elemento stabile nei Bad Seeds) che decolora una produzione “stranamente” pulita di Flood (colui che aveva prodotto Downward Spiral per i NIN e Mellon Collie per i Pumpkins).

Nell’apertura di Into my Arms, Nick Cave chiarisce sin dal primo verso la sua visione sulla questione religione («I don’t believe in an interventionist God»), preferendo soffermarsi sulla forza interiore che scaturisce dalla spiritualità, piuttosto che sulla figura di un Dio arcaico da soddisfare ed assecondare: definitiva a riguardo il finale della strofa centrale, nella quale Nick Cave canta «And to walk, like Christ, in grace and love and guide you into my arms». L’aspetto scarno e languido degli arrangiamenti persiste anche in Lime Time Arbour, toccando apici cerimoniosi in People ain’t no good, in uno splendido atto più solitario e perentorio che misantropo. Il primo cambio di tono lo si apprezza in Brompton Oratory, nel quale il baritono di Cave è retto da una lenta melodia di organetto, come se suonasse per davvero nella chiesa cattolica di Knightsbridge.
La parte centrale del disco non regala sorprese, snocciolando una ballata dietro l’altra da There is a Kingdom con un delizioso arpeggio di chitarra nella parte centrale, alla poesia cristallina di (Are you) the One that I’ve been waiting for?, passando per Where do we got now but nowhere? ove un briciolo (forse più di un briciolo) di smarrimento invade la visione di Nick Cave, interrogandosi (forse vanamente) sulle domande universali dell’uomo.
Secondo cambio di passo nella tenebrosa West Country Girl, nel quale le armonie di Mick Harvey assumono retrogusti mediterranei, senza tuttavia qualsiasi abuso di dolcezza o di accessibilità, confermata anche dal riverbero lungo di Black HairLast night my kisses were banked in black hair»): entrambe dedicate presumibilmente a PJ Harvey, lei, nata nel Dorset, lei dai capelli corvini!
Si va verso l’epilogo del disco con la spietata Idiot Prayer ed un sottile valzer pagano triste e riflessivo, sospirando nella soffusa Far from Me (alias il lato oscuro di una love-story, un brano certamente da approfondire nell’ascolto), crollando nell’asciutta confessione di Green Eyes, ove atmosfere eleganti come un attempato jazz giocano sul rimando delle voci tra il cantato rotto dall’emozione ed uno spoken austero ed incrucciato.

The Boatman’s Call è probabilmente il miglior disco degli anni novanta nella discografia di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds (bellissima la cover-art di Anton Corbijn); ispiratissimo nelle liriche -forse meno negli arrangiamenti, ma lì bisogna avere l’orecchio fino!- e nello sforzo di raccontare l’amore e la spiritualità di un uomo inseguito dagli stessi fantasmi che negli anni ha gelosamente creato. 

recensito da Gus

 

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