Ten – Pearl Jam

Dai riproviamoci ! ” questo sembrano aver pensato Ament e Gossard all’indomani dell’ennesima sciagura, la morte di Andrew Wood e la fine dei Mother Love Bone. Dopo la pubblicazione del tributo Temple of the Dog, i due si rimettono subito al lavoro con Mike McCready e il nuovo batterista Dave Krusen. Alla voce viene pescato un giovanotto di San Diego, che all’epoca tirava a campare facendo il benzinaio: l’asso vincente si chiama Eddie Vedder. Straordinario talento compositivo, la sua voce imprimerà alle successive produzioni del nuovo gruppo un accento decisamente più ruvido di quanto facesse Wood. Questi sono i Pearl Jam.

Ten - Pearl JamTen viene registrato in nemmeno cinque giorni ed esce nei negozi poche settimane prima di Nevermind dei Nirvana: il dualismo è nell’aria e sarà soprattutto montato dai media negli anni a seguire.
Stilisticamente Ten suona più affine alle ballate dei Pixies o R.E.M piuttosto che ad un grunge da brutto, sporco e da scantinato. L’attacco è buono, ostinatamente pop nel chorus, ma sostanzialmente buono «Once upon a time I could control myself /Once upon a time I could lose myself, yeah»: Once è l’impronta di Vedder nel nuovo gruppo nonché una delle migliori liriche dell’album. Curiosamente Once appartiene ad una trilogia di canzoni (assieme ad Alive e Footstep) che compongono Mamasan, ovvero l’ascesa e l’epilogo della follia di un serial killer.
Voce a tratti roca, a tratti sottile e melodica, urlata al punto giusto; siamo lontani anni luce dall’onirismo sfavillante dei testi di Wood. Evenflow è il successo da classifica che mancava ai Mother Love Bone: trainata dalle chitarre del duo McCready-Gossard più istintive che mai e supportate dal, finalmente udibile, basso di Ament le cui linee si mantengono sporche e corpose.
Alive è un altro capolavoro, un inno volutamente da coro (infatti nella versione europea di Ten comparirà anche in versione dal vivo), e i Pearl Jam sono bravi a non cadere nella stonata retorica di un sound più leggero ed orecchiabile. Why Go continua su questa strada esagerando tuttavia degli assoli, mentre Black è una lenta ballata spacca-cuore che taglia decisamente con le precedenti tracce, regalando una grande performance di Vedder, coadiuvato dall’ottima stesura di Gossard. Jeremy oltre a essere l’high rotation su Mtv, è una delle più toccanti canzoni dei Pearl Jam, in cui si racconta del suicidio di un giovane studente deriso dai propri compagni di scuola, prendendo spunto da un fatto realmente accaduto in una scuola del Texas nel gennaio del 1991.

Ten si rivela ad ogni modo un grandissimo disco, in cui si miscelano chitarre granitiche, ballate efficaci ed arrangiamenti nuovi e freschi. Tuttavia qualche pausa di troppo ed alcuni brani troppo radiofonici ed accondiscendenti fanno scivolare il disco in atmosfere sospese ed indecise tra un grunge commerciale e un pop ricercato. Questo sembra piacere ugualmente negli USA e Ten viene innalzato a successo commerciale di cui i Pearl Jam faticano a ritrovarsi. Basti pensare che vendette più di Nevermind, anche se non raggiunse mai la prima posizione delle Billboard Charts.
È sicuramente un album valido che inaugura quella che si può definire la “seconda ondata grunge” (più accessibile rispetto alle uscite Sub Pop, ma decisamente migliore rispetto alle mostruosità di band quali Candlebox e succedanei), anche se i Pearl Jam, come il vino buono, dimostreranno con gli anni e a suon di buoni album tutto il loro enorme potenziale.

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

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