Stand Up – A Mad Game

Quando si sente nominare il “grunge”, la memoria va dritta senza indugi come una palla da bigliardo in buca centrale, a Cobain e alle sue tristi vicende. La pedanteria comune è assai diffusa, quindi nel vocabolario mentale dell’ascoltatore medio la parola grunge (o meglio il genere, uno degli ultimi nati dagli scantinati di casa) evapora dal suo reale significato ad un iconoclasta slogan che puzza di spirito giovanile. Trovare in Italia delle band con un attenzione così maniacale per quell’ underground che si veste di flanella a quadri (altro stereotipo difficile da estirpare!) non è semplice: tuttavia definire gli A Mad Game, talentuosa band genovese, strettamente grunge sarebbe un eresia.

A Mad GameNel loro sound è leggibile una totale influenza agli anni ’90, costruendo un rock-pop litigioso, ammorbidito dalla dose giusta di funk, senza per questo trasformarli in seguaci di Flea e Kiedis. Il debito maggiore spetta a band come Pearl Jam e The  Afghan Whigs, capaci di farsi apprezzare ad un pubblico più vasto districandosi dal fuzz acido delle chitarre, tralasciando in parte la vena punk sovversiva di base e quel tempo da hard-rock rallentato. Il segreto degli A Mad Game sembra essere questo: saper essere versatili, facendo comparire e scomparire le carte a loro piacimento, un rock ruvido ma apprezzabile al tatto. Non si tratta di puro compromesso, gli ingredienti sono centellinati canzone dopo canzone con attenzione e precisione.
Stand Up si presenta a tinte forti macchiate da riff ammiccanti e concreti senza lacerare i timpani: la chitarra di Julian Costa è capace sia di stridere pesantemente con funambolici acuti che soffiare armonie più accessibili nel chorus; Alessio Rasore al basso conferisce il piglio giusto (piacevoli all’udito le sue trame), mentre a Massimiliano Ronchi (l’ingrato) compito di “sbattersi” tra rullante, charleston, crash e grancassa!

L’attacco di Let me Crawling ha qualche reminiscenza con il sicuro successo Gentlemen degli “Afgani di Cincinnati” di Greg Dulli; un rock-funk secco e diretto, ove la componente “hard” è marcata ma non sino allo sfinimento. Prosegue con le medesime condizioni d’ascolto, Words, lievemente più pop della precedente. La title-track delinea un pericoloso quanto curioso identikit, sembra di udire un grunge triturato e coverizzati dagli Incubus; quasi una bestemmia detta così, invece la ricetta perlomeno azzardata si rivela essere non solo commestibile ma (per i più affamati) pure appettitosa.
La voce di Julian Costa a tratti si allinea alle melodie vocali di Eddie Vedder, evidente in There, e a tratti insegue (senza mai raggiungerlo) il timbro di Layne Staley, nella calda Morning Rain. Poi, la manovra che non ti aspetti: un doppio carpiato alla velocità punk, ti aspetta dietro l’angolo, Take me Down, sconvolge il lief-motiv del disco e si concede lo sfizio di sfondare senza freni inibitori. Apprezzabile l’incipit “presidenziale” …    

Quello si evince da Stand Up è un debito musicale piuttosto marcato ai Pearl Jam, con deliziose varianti che personalizzano decisamente il disco.
Si tralascia spesso il messaggio che gli A Mad Game cercano di lanciare, tra le righe man mano che le tracce scorrono, si delinea un salvagente di soccorso per una generazione distratta, che recita male e confonde continuamente parti ed ruoli. Un disco sincero che vuole rimarcare le proprie origini underground ma senza doverne per forza seguire i dettami: tanto per ricordare a qualche discografico distratto che il grunge quando era all’apice, non puzzava solo di deodorante per teenagers!    

  A Mad Game myspace

  recensito da Poisonheart
 

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