Rock Female: Riot Grrrls, Cherry Bombs o Cornflake Girls ? (parte II)

Per capire a fondo il Riot Grrrl, bisogna fare questo ragionamento a domino. I movimenti per i diritti civili e femministi alla fine degli anni ’80 stavano crescendo a dismisura, sensibilizzando e non poco le coscienze dell’americano medio: costui era l’oggetto del contendere. L’amministrazione Bush Senior vedeva il proprio elettorato spostarsi verso posizioni più progressiste, e la reazione fu un inasprimento delle campagne e della propaganda contro l’aborto promossa dai gruppi conservatori-cattolici. Le Riot Grrrls reagivano a loro volta contro questa inettitudine del potere centrale, trovando, paradossalmente in certune figure maschili, fedeli sostenitori, da Kurt Cobain e Eddie Vedder, fino all’influenza determinante dei Sonic Youth, di Thurston Moore e soprattutto, in quel periodo, di Kim Gordon, sempre al posto giusto nel momento giusto. La bassista viene vista dalle giovani musiciste riot come un esempio da seguire: una donna che milita in una band maschile, e che riesce ad imporsi artisticamente senza nessuna censura machista!  Kim Gordon non inventa nulla di nuovo nel suo ruolo, eppure diventa presto un icona per il movimento anche grazie alla formazione delle Free Kitten, progetto tutto al femminile promosso nelle pause tra un album e l’altro dei Sonic Youth.

Un altra donna simbolo per la forza del movimento è Lydia Lunch, che fece di New York la sua culla e il suo amplesso. Sfacciata, “antagonista e violenta” come direbbe lei, la Lunch è tra le personalità di spicco del garage newyorkese, e dopo gli ottimi esordio con i Teenage Jesus & The Jerks, intraprende una carriera solista fatta di tante collaborazioni (da Nick Cave fino ai Sonic Youth, contribuendo con la propria voce in Death Valley ’69) e molteplici progetti, dai spoker words a libri e cortometraggi. Una figura vampiresca, ambigua, determinata e decisamente sexy.
Ed ora eccoci finalmente nell’agosto 1991 e all’esplosione definitiva di queste ragazzacce punk dagli istinti sovversivi ma non distruttivi: insomma, se il punk fosse stato donna, sarebbe stato così!
Le Bikini Kill di certo sono quelle più vicine alla concezione do-it-yourself e all’intensa attività delle fanzine che rappresentano il vero motore divulgativo del movimento. Sotto egida di Ian MacKaye (maestro della scena hardcore) producono un favoloso omonimo ep dai decisi connotati garage punk. L’introvabile reperto porta con sè piccoli capolavori come Carnival e Liar, fatti di rabbia ed alienazione come dimostrano il successivo split Yeah Yeah Yeah Yeah, in comproprietà con le Huggy Bear, contenente l’inno Rebel Girl, poi ripreso su Pussywhipped del 1993. Tuttavia nonostante un certo primo iniziale interesse determinato dal boom-grunge (Nevermind è implicitamente dedicato alla batterista Tobi Vail, ex fiamma di Cobain) la band si eclissa nel 1996 e l’ottima Kathleen Hanna (quella che scrisse ‘Kurt smells like Teen Spirit‘) formerà successivamente Le Tigre, band vintage dal piglio decisamente pop. Huggy Bear e Bratmobile rimangono essenzialmente nell’anonimato: le prime, britanniche, non trovano spazio in uno scenario dominato in madrepatria da band maschili, le seconde capitanate da Allison Wolfe rimangono fedeli alla carovana di Calvin Johnson e ben presto si danno alla produzione.
Discorso decisamente diverso per L7, Babes in Toyland e Hole che ottengono, specialmente quest’ultime un ottimo successo anche se per motivi extra-musicali. Le Babes in Toyland passano ben presto dal nascente underground documentato in 1991: The Year Punk Broke, alle velleità del mainstream partecipando nel 1993 all’itinerante Lollapalooza; in mezzo l’egregio, ma mai più bissato, Fontanelle.
Le L7 di Suzi Gardner sono le più navigate tra le band riot, e vantano già qualche buon album vedasi l’ottimo Smell the Magic, ma raggiungono il successo commerciale nel 1992 con il meno riuscito Bricks are Heavy prodotto da Butch Vig: manco a dirlo Pretend we’re dead diventa un tormentone!!! Beh, delle Hole è difficile parlarne a prescindere dalla coppia Love-Cobain. Raggiungono la ribalta più per fatti di cronaca (dalla custodia della piccola Francis-Bean, ai drammi e lutti personali) che per meriti artistici e questo è un peccato: nessuno come Courtney Love ha saputo riprendere la lezione di Bangles e Raincoats e farla sua miscelando pop e chitarre sporche. Quindi la caduta nel movimento: rivalità accese, invidie e sgambetti femminili portarono ben presto alla disgregazione della carovana, e la causa è anche da ricercarsi dall’intervento delle major che fanno shopping tra Los Angeles e Seattle, derubando le scene locali dei loro maggiori talenti. Una fotografia lucida la scatta forse la stessa Love, ribadendo che il concetto di rivoluzione femminile è pilotato dall’influenza dello show-biz: «se sono le Babes in Toyland, sono pre-politica, se solo le L7 sono assimilazionista, se sono PJ Harvey o Kim Deal sono un ispirazione ma non molto attuale».
Come dice bene la front-woman, superando ampiamente  i confini stretti del Riot,  c’è l’eclettica e talentuosa (probabilmente la migliore artista femminile del nostro tempo) Polly Jean Harvey che con il suo blues-rock sgraziato e la sua poetica tagliente regala capolavori come Dry (1992, leggi recensione) e To Bring you my Love (1995). Da ricordare anche  le Breeders di Kim Deal la “mente” garage-pop dei Pixies, il cui vero talento viene omaggiato in Last Splash! (1993), rumoroso bubblegum denso di feedback e di passione: vi basterà un solo ascolto di Cannonball per innamorarvene!
Dirimpetto, io ci aggiungerei pure Tori Amos, la vulcanica pianista folk-rock dalla sensibilità innata, capace di ribellarsi alle imposizioni metodiste della propria famiglia per abbracciare l’essenza del rock. Una passionalità duttile ma vera, una donna che trova la forza di parlare della brutta vicenda personale dello stupro, mantenendo sempre grande dignità e grinta. Little Earthquakes (1992) e Under Pink (1994) sono lavori intimi e grintosi, ma che lasciano spazio anche ad un pop piacevole come il caso della hit Cornflake Girl.
Molte sfaccettature, influenze, giochi di stile e di moda, di seduzione e di ribellione, tutta al femminile raccontata al femminile. Le migliori parole sono quelle di Kim Gordon, che esemplifica così: «In genere il rock indipendente non è sessista e tutto sommato c’è un accettazione reale delle donne, ma il lato mainstream dell’indi, tipo il college rock, è alquanto conservatore. C’è una certa competitività, e quando la gente è competitiva si sente minacciata … perchè se sei una ragazza in una band sei obbligata ad essere pop o rock, diversamente la gente non ti prende sul serio».

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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