Ritratto di Bombay – Bombay

Molto spesso mi capita di ascoltare un artista per recensirlo e di non sapere nulla dei suoi trascorsi: attraverso la sua musica faccio dei ragionamenti e delle supposizioni, che poi confrontate con la vita dell’artista si rivelano essere -a volte, perché non sono così presuntuoso!- abbastanza esatte: è il caso di Bombay e del suo terzo lavoro, eloquentemente intitolato Ritratto di Bombay.
Così senza altri preamboli mi permetto di affermare con sicurezza e senza tante smancerie, che Bombay ha realmente tradotto quello che negli intenti e nei modi dovrebbe essere la cosiddetta “musica indipendente”: spensieratezza, immediatezza, una splendida autoironia e soprattutto il fare e raccontare musica solo per il piacere di farlo, senza fini discografici, commerciali, virali, né tanto meno generazionali.
Ritratto di Bombay - BombayBombay imbraccia una chitarra in una sera d’estate del 2014 e non la molla più; suona, registra e pubblica in completa autonomia e libertà, senza filtri o intermediari tra la propria musica ed il pubblico. Sin dall’omonimo esordio del 2015, voce e chitarra non evidenziano particolari doti tecniche o melodiche, tuttavia è l’empatia e la genuinità della sua proposta a colpirmi, facendolo assomigliare ad un Vasco Brondi romano, molto più ironico e divertente! La formula lo-fi è più una forma di comunicazione voluta e cercata piuttosto che un’esigenza pianificata: Bombay non si fa portavoce di nessuno -se non di se stesso-, raccontando in versi istintivi le proprie esperienze ed impressioni. Nella discografia non ci sono strofe orecchiabili o motivetti ruffiani per attirare un pubblico “alternativamente” generalista; nelle sue scarne ballate sono presenti le disilluse -e a tratti ingenue- emozioni di un uomo maturo che vive, lavora, con una propria visione del mondo.
Registrato nel settembre del 2017 al Monkey Studio di Roma, Ritratto di Bombay non è solo miele e dolcezze, anzi nella sua scarna forma canzone Bombay sembra voglia togliersi alcuni sassolini dalla scarpa (che dire delle stilettate in Sigourney Weaver e Le pale del mio ventilatore), delineando così un anti-wildeiano ritratto fatto di “emotive” luci ed “umane” ombre. Il disco si presenta con Le frecce tricolori che ondeggiano su di un pastoso arpeggio di chitarra, tra versi tagliuzzati e pezzi di ricordi passati non rielaborati, in un’acida lullaby dai contorni sfocati. Un lief-motiv già apprezzato in Numero Due del 2016 e bissato con una buona dose di insolenza anche in queste 10 tracce, tra filastrocche godibilissime (Che disastro ne è un meraviglioso esempio!), ironiche prese di posizione (la rarefatta Vetro Rotto o Falco Pellegrino) ed agrodolci ballate dai languidi accordi. Quello che più di tutti sale in superficie è il completo controllo di un progetto musicale autentico fino al midollo, che non si prende troppo sul serio, che non patisce l’ansia del piacere a tutti: questa è probabilmente la ricetta per rendere innocuo il mainstream.
Se l’esercizio del videoclip non ha alcun valore musicale, Bombay ne annichilisce pure quello visivo, proponendo per il brano Quante Stelle (guarda video) l’antitesi dell’esaltazione dell’immagine per fini commerciali, in una trovata che farebbe invidia al John Lydon nel post-punk dei PiL. Interessante come alcuni pensieri prendano forma naturalmente, raccontando un’esperienza passata -e le emozioni che ha portato in dote- con una leggerezza d’interpretazione davvero originale (aiutata senza dubbio da arrangiamenti di chitarra immediati), nascondendo appena le precoci delusioni e le brevi amarezze di cui spesso Bombay canta. Così nello scorrere del disco brani come Chateaux Monfort e Senti amore snocciolano una nostalgia endemica, da mezzo sorriso amaro, portate avanti a testa alta e senza alcuna facile commiserazione.
In chiusura doveroso citare Viva!, uno dei pochi esempi in circolazione di canzone animalista (più specificatamente incentrata sul carnismo), nel quale con un’ilarità amara Bombay riflette -tra pennate isteriche di chitarra- sulle comuni abitudini alimentari e sul rispetto degli animali: piacevole e tagliente allo stesso tempo.

Il Ritratto di Bombay (come del resto l’intera sua discografia) evidenzia un approccio alla musica genuino e libertario, da mettere in netta contrapposizione con l’andazzo commerciale che un “certo” indie italiano sta mettendo efficacemente in pratica. Dalla cover-art anacronistica stile fine anni ’70, il disco nelle sue sbavature e disallineamenti è un elogio al far musica per il piacere di farlo, vendibile solo attraverso le proprie peculiarità ed originalità, cancellando qualsiasi elemento “forzato” che possa essere in contrapposizione con l’etica di Bombay: questo si chiama independent!
Grazie per questa lezione di vita, Bombay!

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Bombay bandcamp

recensito da Poisonheart

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