Pornography – The Cure

Gus alle prese con la crisi di mezza età: uno spettacolo lugubre e desolante. Ricalcato forse dalle atmosfere di questo sinistro, spettrale, forse malinconico, album dei Cure: il maestoso Pornography (1982).
L’ultimo secondo Robert Smith (una scaramanzia che ha portato fortune alterne!), il primo di una trilogia platonica che segue le bizze depressive del suo carismatico leader, dal funereo Disintegration (1989), allo splatter emozionale di Bloodflowers (2000).

Mia figlia mi ha detto: «Padre, è da una vita sei in crisi di mezza età!», e magari c’ha azzeccato; sicuramente Robert Smith mima una sorta di Roger Waters disturbato, truccato e di nero vestito, intento a risolvere un conflitto interno che trova soluzione in canzoni più passionali che catalogabili come new-wave. L'”onda” degli anni ottanta in questo caso è un onda anomala, nel quale convive un pizzico di misticismo e qualche reminiscenza post-punk e molta sofferenza: la band è in maturazione, esplora, ricerca e coglie, saltuariamente, soluzioni davvero originali.
Per alcuni è un manifesto dark-gotico, ed io che me ne intendo metto la mano sul fuoco (per non dire qualcos’altro!) e assicuro che di gotico c’è solo il videoclip “vampiresco” di One Hundred Years, brano di punta, inzuppato d’enfasi e di echi nuvolosi, che lo rendono unico nel suo genere.
La band si presenta nella sua line-up migliore con Gallup al basso e Tolhurts alla batteria e alle tastiere solo nel brano d’apertura; il trio riesce a creare una claustrofobia sonora che pressurizza tutti i sensi, grazie anche alle lezioni lisergiche che Steve Severin dei Banshees impartiva al confuso Smith.

La morte di Ian Curtis segnò profondamente la band, tanto da dedicargli il languidissimo Faith (1981, sconsigliato perché veramente indigesto, può rovinare una giornata di sole!) e da ricalcarne le atmosfere in A Short Term Effect: il giro di batteria è molto assonante ai lavori dei Joy Division.
Pornography - The CureNon è un album pop, ma The Hanging Garden è il singolo che più si avvicina a questa definizione, mantiene sempre le stesse rarefatte nebbie sonore già apprezzate in precedenza, eppure suona meno ottusa e più movimentata: il ritmo primitivo della batteria ci mette del suo!
Dose in endovena per Siamese Twin e The Figurehead, la prima amarissima come un caffè bollente non zuccherato; la seconda con qualche spruzzata di ritmi orientaleggianti ma fedele al magico mondo di Robert Smith.
A Strange Day è il pezzo migliore del disco, nostalgico e melanconico da farmi innamorare al primo istante dei Cure. La batteria così meccanica e ripetitiva lascia spazio ad un pop intermittente, nel quale la calda dolce nostalgia fa a spallate con una melodia piagnona e sottomessa. Evocativa e crepuscolare è Cold, ideale se dovete passare una notte in un castello infestato dai fantasmi; meno scontata è la nota di chiusura di Pornography, nel quale i Cure pasticciano con la loro musica cercando chissà quale effetto, che francamente non coglie pienamente nel segno.

Per chi non si vuole troppo bene troverà in Pornography un falso placebo lenitivo; per chi soffre di crisi di mezz’età è l’ideale per abbandonarsi ai ricordi (specialmente se, come il sottoscritto, era adolescente!); non ci sono controindicazioni nemmeno per i giovani ascoltatori emo (nella speranza che imparino qualcosa!); ma è un buon disco anche per chi semplicemente ama tutte le sfaccettature dei primi anni ottanta. Manifesto dark? Ma va la …


recensito da Gus
Gus heartofglass

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