Man can’t stand the silence – Dropp

Elettronica urbana: nebulosa, vestita di velluto blu, dal retrogusto anni 80’s. E’ un sollievo constatare che a Torino l’elettronica wave non fa(ceva) sempre rima con Subsonica.
Dropp sono un quartetto armato di synth, buona volontà ed di una memoria abbastanza variegata che passa dai Blue Öyster Cult, toccando di sfuggita Tangerine Dream e qualche velleità post-punk alla maniera dei Psychedelic Furs; evito di parafrase nomi comuni di troppa fama ed altalenante talento.
L’uso digitale degli strumenti lascia spazio ad un manierismo più continentale, più ricercato, ma senza le peculiarità meccaniche di Berlino o Amsterdam: meno sperimentazione e molta raffinatezza e buon gusto! Una sensibilità umanoide che sfocia senza retorica in ballate chiaro-scuro; il compromesso è lecito e scava sentieri nella sabbia con buona inventiva, strizzando sempre l’occhio a quello che fu.

Dropp - Man can't stand the silenceIl fumo denso sale in superficie, ferite dark vengono disinfettate con acida wave dai rimpianti seventies. Man Can’t stand the silence prende lezioni di melodia dal pop più maturo, mescolandolo con sonorità d’oggi non troppo indi(e)-geste. Sempre ad un livello di onirismo mentale, mai troppo petulante, mai sbronzo. Un lento sognare privo di inibizione, ove queste sonorità descrivono con la giusta misura sentimenti, atipici in alcune loro vacue astrazioni, ma  sempre ben celate. Parvenze di alienazione, sana nostalgia sono i richiami frequenti, ma perdono quel peso fatto di languore che vanificherebbe un risultato finale decisamente all’altezza delle aspettative.  Drown è un shekkerato violaceo di cupo pop, indossabile ed adattabile ad ogni umore. Musicalmente si mantiene in avvicente equilibrio tra melodia orecchiabile e sperimentazione: il retrogusto è amabilissimo, bollicine di riff intestinali e toni bassi, dati rispettivamente dalla 6 corde e dai synth.

In Perfect Loneliness si assite al miglior pezzo dell’ep, fragranze retrò, riprese recentemente da gruppi revisionisti come i belga Goose: immaginate di prendere i primissimi U2  di I will follow e di inzupparli di vernice sintetica, di deturpare per sempre il ciuffo vintage di Bono, di respirare a pieni polmoni quell’aria rarefatta di energia digitale.
Sparkle s’ inserisce in un contesto più dub, senza estremizzare il sound della band, che fa della parte vocale una somessa preghiera da stanza degli specchi: ogni effetto riflette e sbatte l’uno sull’altro, senza scontri violenti senza andare in frantumi, anzi, ogni ingrediente si deforma diventando una cosa sola con l’altro. Dance si muove su binari più ostici, misteriosa ed illegale quanto una cerimonia massonica: i richiami ai pionieri dell’elettronica nordica sono evidenti, prendendo dai tedeschi la perentorietà e dalle sonorità celtiche la poesia. Come una nave che si allontana tra la nebbia alle prime luci dell’alba.

Una buona dose di coraggio e di ulteriore sperimentazione può sicuramente incoraggiare questi ragazzi a perseverare. La strada è praticata da pochi, ma l’entusiasmo è la prima regola per far bene e divertirsi con la musica. Ne vale sempre la pena …

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recensito da Poisonheart
 Poisonheart hearofglass

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