Mainstream – Calcutta

Edoardo D’Erme (alias Calcutta) viene da Latina, ma potrebbe essere benissimo cittadino del mondo (o meglio cittadino d’Italia); sarà quel piglio da mezzo cantautore scapestrato, sarà quell’aria menefreghista da italiano educato, saranno le tante cose contenute in Mainstream (uno degli eventi 2015 di Bomba Dischi), fatto sta che le voci fuori dal coro ci piacciono tanto.
Calcutta nasce come progetto a due di Edoardo D’Erme e di Marco Crypta, poi quest’ultimo lascia nel 2011, ed ecco che il mestiere di cantautore diventa una necessità ed una forma di comunicazione. Se musicalmente il progetto perde la sezione ritmica, le parole resistono e si fanno penetranti ma distaccate: uno sguardo verso l’attualità ma con la faccia da sognatore (un po’ come quella di Edoardo). Mainstream ha il pregio di essere un disco diretto, forse non proprio omogeneo, ma con spunti riflessivi ed una certa pigra atmosfera di qualcosa che si è perso per strada, nella vita o nel mondo.

Il personaggio che si muove in questo lavoro di Calcutta è un uomo disilluso, libero ma con il cuore moderatamente spezzato, approssimativo ed acuto allo stesso tempo. Sa fotografare bene istantanee di quotidianità, di un presente stagnante, provinciale nella metropoli, megalomane nella provincia. Il sapore anni ’80 che dalle prime note di Che cosa mi manchi a fare svanisce verso un minimalismo asciutto e critico, nel quale una sorta di moderno Adamo con le mani in tasca cammina consapevole di doversela cavare da solo, maturo e speranzoso in quel suo dolore composto ed accigliato.
calcutta - mainstreamSpesso nel corso di Mainstream si ricorre ad una figura maschile sola ed avvilita, quello dal cuore piegato per colpa di una stronza, eppure la forza del cantautorato di Calcutta sta nel disegnare immagini abbastanza quotidiane ma delineate da contrasti molto forti, avvolti da un cinismo quasi intellettuale. In Gaetano ad esempio è lampante la stra-citata «ho fatto una svastica in centro a Bologna ma era solo per litigare», evidenziando un senso di distacco verso icone ed ideologie oggi (o forse dovrei dire ieri?) additate come sacre. Eppure permane un disinteresse lucido proprio verso i grandi dibattiti e le grandi domande, nel quale questo personaggio (non dissimile dal Penthotal di Andrea Pazienza) si muove col cuore pieno di solitudine volgendo lo sguardo altrove, verso uno qualsiasi dei tanti vuoti. In Frosinone, Calcutta tocca l’apice compositivo con un pianoforte che apre stonato (a metà tra la furia di Faust’O e la scioltezza di Battisti) verso un inno di libertà cantato a squarciagola. Un segno di rottura verso le cose materiali, ma anche verso i sentimenti umani in un urlo «io ti giuro che torno a casa e mi guardo un film», come se l’isolamento verso il mondo si esaurisse nell’intimità di un salotto. Sottopelle ci resta un brano scanzonato, irriverente («non ho lavato i piatti con lo Svelto, è questa la mia libertà») e domesticamente sovversivo: anche questo è fare il cantautore.
L’approccio “do-it-yourself” all’italiana funziona, tuttavia non è possibile etichettare Mainstream come un maestoso concept contemporaneo (seppure ne abbia qualche attitudine); se gli arrangiamenti sono minimali ma curati, è in alcune scelte spregiudicate (e ben venga!) che il disco perde alla distanza quella lucida incisività cantautorale che giace così naturalmente sottopelle. Gli Intramezzo 1 e 2 sono momenti di complemento (guest-star, le tastiere di Niccolò Contessa), così come appare spaesata la contrapposizione di Del Verde (una bella preghierina di chi fa dello spirito libero una ragion d’essere) con Dal Verme (epopea elettro-noise, non male ma fuori dal contesto di quanto sentito prima): ma forse questo è solo l’irriverente versaccio con cui Calcutta vuole omaggiare il grande “mainstream” musicale nostrano.

Musicalmente permane la risolutezza di soluzioni melodiche striminzite, ad ogni modo l’impalcatura regge grazie ad una Milano vista come una corsia d’ospedale (cantata come la Milano jannacciana da piano bar), nel quale i picchi di solitudine sono acuti ed affilati; a Limonata nel quale l’eco del conformismo genera un sano odio agrodolce verso un’amore finito e alla finale Le Barche (con espressa dedica ad Adele Nigro degli Any Other). Così Mainstream non parla altro che la lingua di oggi, umorale, solitaria, un po’ stonata, ma libera dalle mode e dalle sensazioni esterne. Calcutta racconta con le immagini che ha a portata di mano, di come è strano questo paese e di come non si piaccia più, e di riflesso come il provincialismo nazionale sia ben radicato nella nostra musica indipendente. Se la ricerca spasmodica nel nuovo cantautorato può provocare emicrania da parte dei saccenti nostalgici degli anni belli, beh con Calcutta c’è quel qualcosa che non so, ma che te lo fa piacere subito … poi se anche il Latina raggiungerà il Frosinone nel derby di serie A, allora avremmo certamente altre parole ed immagini da spendere. Calcutta ne ha sicuramente.

Calcutta facebook
Bomba Dischi sito ufficiale

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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