Lungo i Bordi – Massimo Volume

Lungo i bordi - Massimo volumeImmagina una Bologna nel mezzo degli anni ’90, indigesta, tortuosa, pensierosa nel suo rigurgito del mattino. Una città nella quale si leva una nebbia di nostalgia, un malessere forse, ma non troppo pesante, come quello che corre nella mente solo per qualche secondo e poi svanisce via per giorni interi. Ecco, questo clima e questa città diventano il palcoscenico di vita di Emidio “Mimì” Clementi, capace di intrecciare segmenti di vita in quelle sue maniacali, sospirate melodie narrate. Per il resto ci pensano le dita di Egle Sommacal, l’immancabile potenza di Vittoria Burattini, e l’altra chitarra di Gabriele Ceci a completare Lungo i Bordi a tutti gli effetti il miglior disco italiano degli anni novanta (Faust’O che lo produce, ci vede bene!).
Sono gli anni buoni, quelli in cui le semine dei periodi passati hanno portato bene, la musica italiana (alternativa e non, bah che differenza fa!) si riscopre davvero potente, emozionale, ammaliante in diverse forme. Nel 1994 nasce per mano di Valerio Soave, la Mescal che racchiude e collezionerà per gli anni a venire tutta la migliore generazione della nuova scena alternativa italiana (ci sono proprio tutti, fidatevi!). E tra questi i Massimo Volume che dopo l’esordio contagioso di Stanze (1993) consolidano il loro stile, peraltro unico, attraverso una poesia concreta fatta di pezzi di vita vera, di vita vissuta, mai contagiata da quella retorica comune, quella retorica malsana e radiofonica su quanto belle siano “certe notti” o sulla leggerezza del “vivere e sopravvivere”. Episodi spesso frammentari, nati dall’intimità di un pensiero, veloci, fugaci, talvolta inconcludenti, morsi di un sogno, cose così che fanno base per gracili castelli di stati d’emozione crudi e lividi: e poi si vede che Mimì le recita col cuore, si vede che appartengono a lui tutte quelle parole!

Già perché in mancanza di una voce, di un cantante di mestiere, i Massimo Volume si arrangiano come meglio possono e trasformano la presunta musica leggera tradizionale in una potente cascata di parole dalla cruente forza evocativa: meglio di un reading, meglio di un melodramma!
Forse perché parole e musica s’intrecciano morbide in un tappeto comune, e se le chitarre graffiano la lavagna con riff sostenuti, intensi ma misurati, allo stesso modo le percussioni della Burattini garantiscono il giusto sostegno alla voce di Mimì, capace con un’enfasi da uomo qualunque di sottolineare ogni volta i punti importanti nelle seppur scarne liriche di questo disco.
Così i Massimo Volume raccontano in musica gli anni novanta senza mai nominarli, ripercorrendo le vicende di altre epoche, di altre età, di altre esperienze: forse è solo un caso che Lungo i bordi sia un uscito nel 1995, perché è un disco talmente universale che suona sempre nuovo.

Talvolta sorprende l’essenzialità della musica e l’intreccio stesso con le parole, non vi esiste nessuna logica, nessuno schema-canzone, la poesia scorre libera senza peraltro essere poesia. Così capita che Emmanuel Carnevali e Rimbaud condividano gli stessi versi ne Il primo Dio, in un crescendo di chitarra che s’appiccica all’orecchio e non si stacca più. Un omaggio al poeta italiano “morto di fame nelle cucine d’America, sfinito dalla stanchezza nelle sale da pranzo d’America” che fa subito venir voglia di conoscere di più sull’argomento; una capacità naturale nel disseminare  nei testi piccoli riferimenti, piccole passioni, piccoli gioielli e di incastrarli tra i versi senza che la canzone ne venga dominata, senza che ne resti traccia indelebile. Come quando si ode in Inverno ’85 che in una camera da letto Wicked Gravity di Jim Carroll scorreva ininterrottamente nello stereo, eppure è l’immagine di questo ragazzino che si “muove al ritmo delle chitarre elettriche” non ci lascia più, viene immagazzinata presto nel cervello per rimanerci a vita. Creare appunto immagini forti e cristallizzarle in questi racconti-canzone è l’elemento essenziale di questo disco, perché non c’è da stupirsi come i momenti migliori e celebri riaffiorino in Meglio di uno specchio (“Ho passato vent’anni ignorando di avere un corpo, poi è stato come se un auto entrasse a 180 all’ora dentro una di queste vetrine“) e in Pizza Express  (“Erano gli ultimi istanti di quella che da allora in poi avrei chiamato ‘la mia vita precedente’ “).
L’ascoltatore è rapito dal crescendo del racconto, ne entra come in un paese delle meraviglie, ma è vigile, è sveglio e ne diventa parte integrante e vivente quando la mimica delle chitarre e della batteria lievita con lo scorrere del brano. Effetti delay, echi, grovigli di distorsioni si legano e si slegano in sottofondo rimarcando come la mano di Sommacal sia sempre sensibile al punto giusto.
Il resto è un piacere per l’orecchio, da la nostalgia di Il tempo scorre lungo i bordi, all’isteria confusa di Nessun ricordo, dallo smarrimento narcolettico de La notte dell’11 ottobre al decadentismo velleitario di Ravenna,  passando infine per frammenti nomadi come in Da qui:

Vivo in un posto dove tutto quello che accade sembra accadere per caso
Una strada attraversa il paese
Il paese è quella strada
Nessuno ha scelto di vivere qui
Ma c’è qualcosa che ci trattiene
Perché anche se non c’è amore a volte a volte c’è qualcos’altro

Gli anni novanta appartengono ai Massimo Volume!

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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