La storia del Blues: il Delta e le origini (parte I)

La storia del blues va di pari passo con le vicende storiche di sofferenza e lavoro degli afroamericani resi schiavi dai bianchi. Ma questo lo sanno già tutti. Quello che invece si tende a confondere sono le origini. La terra fertile del Delta del Mississippi (alt! non dove sfocia il fiume nel Golfo del Messico, bensì quella zona che approssimativamente copre il nord dello stato del Mississippi e la parte orientale dell’Arkansas) ospitava numerose piantagioni di cotone ove lavoravano in situazione di schiavitù non solo gli afroamericani, ma anche gli immigrati bianchi, specie irlandesi.

La solidarietà reciproca degli oppressi per le medesime dure condizioni di lavoro scavalcarono così qualsiasi ostacolo razziale, ed il blues divenne dunque una valvola di sfogo comune contro lo sfruttamento dei padroni. Le parole di Charlie Musselwhite, importante armonicista blues, sono limpide ed esaurienti: «Il Delta è un mondo a parte del sud degli States, anzi è qualcosa a sé stante persino per lo stato del Mississippi. E’ un posto ove faticosamente neri e bianchi hanno imparato a convivere pacificamente condividendo momenti di gioia collettiva …».
Il blues del Mississippi è certamente intriso di grande emotività e malinconia, frutto proprio di un cantato sofferto, quasi viscerale ma che sa raccontare della condizione degli neri d’america, delle loro origini africane, delle superstizioni e dei riti pagani che venivano tramandati oralmente, oltre a tutta una serie di slang (double talk) che servivano agli schiavi neri per comunicare tra loro senza che i padroni bianchi potessero capire.

La ricchezza culturale del blues ha origini lontane appunto, che si fondono con il culto Voodoo (o Vudun in terra africana), una sorta di religione politeista nel quale ogni divinità aveva la propria sfera di competenza e di protezione. Il canto (ma anche la danza) diventa perciò fondamentale proprio per omaggiare gli dei, anche se tale pratica era ritenuta pericolosa per i padroni cattolici bianchi, che bollarono presto il culto come una sorta di magia nera fatta di incantesimi e superstizioni. Ovviamente i riti “magici” (gli hoodoo) esistevano, ed abbracciavano branchie della medicina officinale, per non parlare dell’esoterismo e della superstizione, ed avere con sé un mojo (ossia un talismano portafortuna) era una cosa sempre ben accetta.
Le grandi resistenze dei bianchi verso il blues nascono dalla paura e dall’ignoranza, tuttavia è innegabile che la vita del bluesman fosse quanto più lontano da una vita semplice ed austera. I vizi (donne, alcool e gioco d’azzardo) erano il sale di un esistenza on the road, un continuo vagabondare solitario alla ricerca di una felicità solo ostentata, una chimera senza gloria. Robert Johnson è senza dubbio il bluesman per eccellenza, e la sua effige simboleggia  quel blues degli anni ’20-’30 e di quell’America che vagava tra la segregazione razziale, il proibizionismo e la Grande Depressione. Johnson nasce a Hazlehurst nel Mississippi, ed almeno ad inizio carriera non era un eccelso chitarrista (anzi, aveva iniziato con l’armonica!). Sparito per qualche tempo dopo la morte della prima moglie per parto, ritorna con nel cuore la musica e nell’anima il demone del blues (venne istruito dalla leggenda Ike Zinnerman) con uno stile chitarristico evoluto, riuscendo a suonare contemporaneamente parti ritmiche e assoli. Il mito vuole che Johnson abbia venduto l’anima al diavolo in cambio di questa straordinaria abilità con la sei corde (si dice che questo avvenne a Clarksdale all’incorcio tra la Highway 61 e la Highway 49). Vero o meno ci restano le prove delle proprie incisioni nelle alternative takes registrate tra il novembre 1936 ed il giugno 1937 a San Antonio e Dallas. 41 brani nel quale c’è tutto quel che c’è da sapere sul blues: da Me and the Devil Blues nel quale il bluesman alimenta la leggenda del suo famoso patto diabolico, a Cross Road Blues ove si omaggia la vita vagabonda (hobo, ossia spirito libero) dell’afroamericano con la chitarra in mano e l’armonica in tasca. Johnson fu senza dubbio passionale e struggente nel suo modo di suonare, asciutto e livido in brani come Hellhound on my Trail o Ramblin’ on my Mind con quel tipico sound universalmente riconosciuto.
Nonostante ciò il suo nome rimase pressocchè sconosciuto fino alla prima metà degli anni ’60, quando una nuova ondata blues proveniente dall’inghilterra riscoprì il Delta e i suoi musicisti. Oltre ad incuriorise gli Stones (che omaggiarono spesso Johnson, ricordiamo ad esempio le cover di Love in Vain o Stop Breakin’ Down Blues) ed influenzò in maniera decisiva il primo Dylan.
Se della sua vita si conoscono pochi aneddoti (esitono solo un paio di foto ritenute autentiche!) anche la morte è avvolta nel mistero e nella leggenda. Ad un juke joint (locali spesso malfamati nel quale si faceva musica blues) di Three Folks durante un esibizione in compagnia del fedele armoniscista Sonny Boy Williamson II ed a Honeyboy Edwards, il bluesman venne presumibilmente avvelenato dal proprietario della locanda. Il motivo? Sembrava che Johnson ne corteggiasse la moglie, e la vendetta fu servita in una bottiglia di scoth. Sonny Boy tuttavia mise in guardia l’amico, che di riposta si sentì dire: «Non mi strappare mai di mano una bottiglia di whiskey!».

La Firma: Poisonheart
Poisonheart hearofglass

Share

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.