Metallo Britannico, Metallo di Birmingham: Judas Priest (1980 – 1990)

Il polo industriale di Birmingham oltre ad aver dato i natali ai Black Sabbath, ha contribuito nell’immaginario collettivo a creare quel sottosuolo metal, che sfonderà definitivamente gli argini nella prima metà degli anni ottanta, nella sua forma più heavy. K. K. Downing e Ian Hill fondarono i Judas Priest nel 1969 (un anno dopo i Sabbath), prendendo ispirazione dal folk di Dylan in “The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest” (nome suggerito dal primo cantante Al Atkins). Tuttavia ci vollero una buona manciata di dischi per definire i confini dell’heavy-metal, depurandosi da qualsiasi elemento progressive e blues; la maturazione sembra effettivamente compiuta con il capolavoro British Steel (1980), emblema per antonomasia della NWOBHM. E’ anche nevvero che i Judas Priest devono molto del loro seguito anche al look originale ispirato al sadomaso: borchie, cinghie, cuoio e pelle sera onnipresenti, ed una certa simpatia verso i motori. Se a livello musicale assistiamo all’heavy-metal perfetto (grazie anche all’estensione vocale di Rob Halford), i contenuti dei brani dei Judas Priest corrono bordeline tra gli ironici e blasfemi riferimenti sessuali e religiosi, suscitando più di qualche accusa -ovviamente infondata- verso pratiche sataniste. Dalla più volte coverizzata “Breaking The Law” (annesso videoclip irriverente!), alla irrinunciabile “Living After Midnight“, passando per “United” e “Metal Gods“, il disco è un concentrato epico di puro heavy tirato, furente e retorico, che non ha eguali nella storia del genere. Non c’è ascoltatore che possa criticare o denigrare il British Steel, poiché in esso sono contenuto tutti gli elementi essenziali del genere, senza nulla di superfluo o fracassone.
 
Mentre una “nota” band pubblicava “The number of the beast” (Iron Maiden, ovviamente); i Judas Priest  si accingevano a rispondere urlando guerra (o vendetta!) a colpi di Fender ed acuti per rivendicare l’appartenenza alla scena hard ‘n’ heavy inglese. Sempre fedeli all’ hard rock dei primi album, per il gruppo inglese è ora di cambiare pelle per  cercare di superare la concorrenza: Screaming For Vengeance (1982).
Judas PriestE via con la storica accoppiata “The Hellion / Electric Eye“che inaugura il disco, un anthem storico e una song con un testo ispirato al Grande Fratello di Orwell in 1984: tutto questo è heavy metal di classe  senza tante balle. Il lavoro alterna  pezzi da hard rock “radiofonico” con “(Take These) Chains” e la famosissima “You’ve got another thing comin’ ” (chi ha giocato a GTA Vice City l’avrà sentita fino alla nausea); a pezzi più spinti come “Riding on the wind” e la title track, da ascoltare mentre si viaggia a tutta birra su un Harley Davidson sulla route 66. C’è anche materiale per i metallers più romanticoni , “Fever” ne è l’emblema: non la solita ballata ruffiana in stile Bon Jovi (testo  a parte), ma bensì l’esatto contrario, inizia con una chitarra malinconica  e cupa e poi esplode la potenza con riff azzeccati e un assolo che non fa mai male a nessuno.
Screaming For Vengeance si ritaglia la sua parte nella storia della musica e del metal, non perché sia un masterpiece o et simila, ma perché segnala un primo radicale cambiamento nel sound dei Judas Priest, che dall’esordio “Rocka Rolla” era rimasto più o meno lo stesso, nonostante abbia gettato le basi per la NWOBHM, che tutti sembrano ignorare.

Dopo “Defenders of the Faith” i Judas Priest sembravano aver perso la bussola, tra il pseudo glam di “Turbo” e il traballante “Ram It Down” ed il seguito delle infondate accuse di istigazione al suicidio nei contenuti della loro musica, nessuno si sarebbe aspettato  a questo punto della loro carriera un capolavoro delle proporzioni di “Painkiller
Judas PriestCon il nuovo batterista  Scott Travis (il più tecnico e potente che i Judas Priest abbiano avuto) e con un Rob Halford che si lancia in acuti da pelle d’oca senza perdere un’oncia per tutto il disco assieme a  due formidabili chitarristi sarebbe stato impossibile sbagliare.
Una mitragliata senza scampo creata dalla batteria da inizio alla roboante e immensa “Painkiller“, Halford con le sue corde vocali d’acciaio mette subito in chiaro che qui non si scherza e il resto della band pesta il pedale dell’acceleratore. 6 minuti di scossa elettrica creata dalle chitarre che fanno gara a chi fa l’assolo più incredibile ed emozionante. La  terremotante batteria non si da un attimo di pausa, anzi più avanza il brano più diventa devastante fino al climax del finale. Pezzo storico che entra di diritto nell’olimpo metal. Non c’è tempo per fermarsi , arriva Hell Patrol“, riff rocciosi e possenti e un ritornello semplice che vi troverete a cantare a squarciagola senza accorgervene.
In “All Guns Blazing” Halford mette a dura prova i timpani di chi ascolta, la batteria decide la velocità e i due axeman non  resta che sparare fuori più energia che possono. “Metal Meltdown” (mai titolo più azzeccato) è un altro brano adrenalinico grazie alla velocità e agli assoli stridenti che lasciano senza fiato.

Nella seconda parte del disco i Judas Priest si calmano leggermente, “Between The Hammer and The Anvil” e “Night Crawler” sono le classiche canzoni del combo di Birmingham . “A Touch of  Evil” rivisita l’hard rock degli esordi trasformandolo in un  brano granitico e dalle atmosfere epiche (tutto in mid tempo) che nemmeno i Manowar più tamarri riuscirebbero ad eguagliare. 
Painkiller è un disco fondamentale del metal e una delle creazioni migliori in assoluto della seconda vita dei Judas Priest. Dopo questo album, Rob Halford lascerà la band , la quale rimarrà in silenzio per ben 7 anni, e non riuscirà più ad eguagliare i fasti del passato.

 

La Firma: Mighell

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