La Fine dei Vent’anni – Motta

La Fine dei Vent’anni non è un fatto puramente anagrafico, è un segno di rottura, spesso doloroso, dall’età di una pseudo-innocenza che rifiuta ogni responsabilità, ad un’altra età in cui queste responsabilità non sono più rimandabili. Poco importa se questo fa rima con il diventare “finalmente” adulti, poiché Francesco Motta questa scomoda condizione non la nomina mai. Ecco quindi un disco che potenzialmente suona generazionale, ma che ne rifiuta categoricamente ogni etichetta, in quanto quello che si vuole raccontare aleggia nell’aria, è fatto di sensazioni ed impressioni sporadiche, che non sentono l’esigenza di doversi confrontare necessariamente con gli altri.

Alla ricerca del tempo perduto: Riccardo Sinigallia crede ciecamente in Francesco Motta, tanto che non solo produce La Fine dei Vent’anni (Woodworm), ma ne diventa coautore e turnista in alcuni brani; senza per questo snaturare il percorso artistico di Motta, che pedala con le proprie gambe verso un cantautorato espressivo molto lucido e personale. Se già nei Criminal Jokers (precedente progetto di Motta) si sentiva l’esigenza di comunicare una diversa prospettiva musicale, in questo esordio solista la libertà di mischiare generi e stili diversi assume contorni quasi grotteschi, nonostante il tutto sia estremamente bilanciato e curato negli arrangiamenti. Una versatilità a cui il bagaglio cultural-musicale italiano forse non è troppo abituato, ma che viene alleggerito da un piglio piuttosto pop che ne regola i contorni più ispidi; ecco che La Fine dei Vent’anni diventa l’urgenza di fotografare l’ultimo istante di innocenza, e nel farlo si sente già un po’ più di quella saggezza e lungimiranza che prima non c’era. Motta non ricama con nostalgia le vicende passate, non cerca risposte da un passato di ferite aperte per cercare di ricucirle nel presente, il giovane artista racconta con parole secche, senza fronzoli hipster o metafore da campagna pubblicitaria. Anche perché lo stesso Sinigallia o Giorgio Canali (alla chitarra nei due pezzi finali) dall’alto della loro saggia indipendenza non avrebbero mai permesso di trasformare questo disco in un mero esercizio indie-rock commerciale da dare in pasto a tv e radio (nonostante il discreto eco che La Fine dei Vent’Anni sta avendo nei media nazionali).

Motta - La fine dei vent'anniLa macchina del tempo: Basterebbe forse il cantato asciutto e gli arrangiamenti caldi ne Del Tempo che passa la Felicità, ad accendere una fiammella di breve bellezza; poiché solo nel chorus (Sarebbe bello finire così / Lasciare tutto e godersi l’inganno / Ogni volta la magia della noia / Del tempo che passa la felicità”) si condensano l’alienazione, la nostalgia ed il mesto lascito di un qualcosa che si è perso, o forse che nel suo etereo splendore si è tramutato in qualcos’altro. Non ha molta importanza circoscrivere verso dopo verso alla ricerca delle tracce di un passato, poiché la perdita è effimera, sfuggente, e forse questo smarrimento nient’altro è che una dolce confusione che gira attorno la testa e che stordisce senza recare dolore. Livelli sonori si sommano e si attraversano l’uno nell’altro, creando echi che personalmente mi ricordano gli ultimi sognanti Noir Desir; mostrando una ricercatezza precisa, a tratti leziosa, ma indissolubilmente armoniosa con le liriche. La fine dei vent’anni apre con l’aspro verso “C’è un sole perfetto, ma lei vuole la luna“, che richiama ad un lieve cinismo nato e proliferato dall’esperienza; sibili acustici di chitarra colorano una confessione sprezzante, eppure senza mai che vi siano tracce di rimpianto o di tristezza. La perdita è solo ideale, il cammino davanti è la grande sfida, il senso di tutto: un po’ come quella stralunata gioia di lasciare una strada battuta per affrontare quello che giace oltre l’orizzonte.
Di fattura più pop è Prima o poi ci passerà, nel quale il chiaro-scuro del pianoforte incontra algide percussioni, conferendo un ritmo sostenuto ad un ascolto un po’ più orecchiabile; la ballata di Sei bella davvero risente della stagnante delicatezza di Sinigallia che a quattro mani completa la scrittura di Motta; lo slide onirico di chitarra durante i versi, regala quel tocco di imprevedibilità e di spensieratezza che mancava a questo punto del disco.
Il funk clandestino di Roma stasera, si fa furioso nel cantato, come una confessione che digrigna i denti trattenendo a stento una fugace rabbia, che scivola via tra synth industrial e beat pressanti; l’approccio caldo di Mio padre era un comunista rievoca un passato nel quale l’infanzia si fa dolce ed aspra nello stesso istante, osservando con gli occhi di adesso quello che in gioventù sembrava magia, togliendo quel pizzico di innocenza dai ricordi lucidissimi.
L’incipit lungo di Prenditi quello che vuoi crea un vuoto psichedelico come se l’ascoltatore si trovasse nel centro del vortice dei ricordi di un Francesco Motta che si fa eremita minimalista della propria esistenza; proseguono le atmosfere esotiche anche in Se continuando a correre, delineando quindi uno stile coloratissimo e variopinto che non somiglia a niente di quanto già sentito nell’indipendent italiano. L’approccio confidenziale, ma essenzialmente critico, sembra essere il marchio di fabbrica di un condottiero che lotta contro la monotonia ed un immobilismo intellettuale, senza pur tuttavia svelare paranoie politiche o ideali.

The Times They Are a-Changin’: Una maternità è una sofferta cantilena nel quale i contrasti tra la spoglia chitarra di Motta e le macchinazioni elettriche di Canali, enfatizzano la tensione di un brano pregno di sofferenza ma anche di grande lealtà. Chiudo con Abbiamo vinto un’altra guerra che sembra tirare le somme con la polvere del passato, rivendicando un’energia ed un’azione che non c’è più, o che si è fatta talmente flebile da sembrare accondiscendente verso questi strani morti tempi: eppure il piglio di Motta è ribelle nonostante tutto, poiché in stralci come “Abbiamo vinto unaltra guerra non quella che volevi tu / Ora e per sempre ti accontenti. ed io non parlo quasi più” c’è una voglia di andare controcorrente che nemmeno la fine dei vent’anni può far tacere.
Motta confeziona un disco maturo, sprezzante di idee e ricordi, suonato ed arrangiato con molta cura e senza badare alle mode o agli umori delle piccole scene; la sua lucida visione della musica suona come una ventata nuova per tutto il movimento italiano, e senza troppo trionfalismi posso azzardare con buona sicurezza che La Fine dei Vent’anni è e sarà l’esordio più interessante di tutto questo strano 2016.

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Woodworm sito ufficiale

recensito da Bambolaclara
BambolaClara heartofglass

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