Hypermnesiac – The Somnambulist

Confesso di aver ascoltato molto in queste lunghe settimane Hypermnesiac, ultimo e prezioso lavoro targato The Somnambulist, per due ragioni principali: la prima era un latente senso di colpa verso il precedente Quantum Porn, che recensii su questo spazio (leggi qua) senza tuttavia aver colto nella sua interezza la profondità di un album complesso e molto sfaccettato; la seconda è che -evitando quindi gli errori pregressi- non volevo scrivere nulla finché non si fosse realizzato un contatto emotivo tra me ed il disco.

Uscito nei primi giorni di febbraio di questo funesto 2020 per la Slowing Records, Hypermnesiac è tornato a più riprese tra i miei ascolti, creandosi con il tempo una propria nicchia affinché comprendessi. Marco Bianciardi stavolta predilige forme più agili, ed infatti Hypermnesiac elude la formula del doppio come accaduto in Quantum Porn, concretizzando in sette tracce una nebbia sonora greve e densa, capace di innalzare in egual misura sensazioni di decadente armonia e di sedata psicosi. Il progetto di questo lavoro, coadiuvato come sempre dalla sezione ritmica di Thomas Kolarczyk al basso e di Leon Griese all batteria, nasceva inizialmente al servizio del cinema. Film, la traccia che apre il disco -e che ne ha poi deviato la natura- altro non è che l’omaggio all’omonima pellicola del 1964 di Alan Schneider sull’unico soggetto di Samuel Beckett prestato al cinema, ed interpretato dall’indimenticabile Buster Keaton. E’ giusto spendere due parole su questo film muto, di certo tra i meno conosciuti ed iconici di Keaton, ma le cui atmostere tese ed ansimanti, ben si allacciano con il tema portante -ed in generale con le tematiche care a Bianciardi- del disco. Nei 20 minuti scarsi di cortometraggio, si assiste trepidamente alla paranoia di un anonimo protagonista inseguito da uno sguardo fisso ed ineluttabile, in una sorta di loop psicologico dai sorprendenti risvolti finali, come solo il cinema muto sa regalare. I rintocchi di pianoforte iniziali del brano, sono la continuazione sonora di quella tensione si perpepisce nel primo piano della pupilla dilatata che si vede nella pellicola (provare per credere!): un senso di pedinamento perpetuo, di claustrofobica insicurezza, quell’irrefrenabile necessità di trovare una via di scampo, una soluzione, un diversivo. La potenza della musica buca le più basali emozioni di irrequietezza del corto, suscitando nell’ascolto quel senso di insicurezza, di latente brivido, ammaliando allo stesso tempo la danza con cui Film accompagna lo scorrere ansioso passeggiare del protagonista visto di spalle.

Hypernmesiac tuttavia si svincola presto dalla formula cinematrografica e già in No Sleep Until Heaven rimodula una tensione post-industriale e post-apocalittica, immetendo nel tessuto sonoro trame grumose, baritone, nervose, automatizzate. La decadenza batte a catinelle nel sincopato trip-hop di Doubleflower, avvicinandosi a passi felpati a quello che a tutti gli effetti è il capolavoro isterico di No Use for More. Tra cenni di math-rock, una matassa elettro-post-punk s’insinua ripetitiva e pulsante, accrescendo quella tensione vibrante che lega -e legherà- singolarmente tutti i brani di Hypermnesiac. Giunti a metà disco, ecco che s’innalza il muro sonoro tipico dei Somnambulist, tra riff martellanti ed una rirmica possente e fagocitante, che alimenta quel contrasto psicodrammatico che da sempre contraddistingue le dinamiche del trio. Eppure il minimalismo di fondo, il muoversi per sottrazione, è più di un indizio, anche nella freudiana At Least One Point At Which Is Unfathomable, che oltre al citazionismo da L’Interpretazione dei Sogni (“Ogni sogno ha almeno un punto in cui è insondabile; un punto centrale, per così dire, che lo collega con l’ignoto“), offre spunti di riflessione sul rapporto tra uomo e la propria astrazione onirica.

Senza scomodare paragoni ad effetto poco calzanti (da Nick Cave a Tom Waits), l’archittetura del disco è sempre ben definita: fredda al tatto, ma capace di smuovere nel profondo solo qualora l’ascolatore decida di fare un passo in avanti, mettendosi in gioco. Personalmente ho agito proprio in questo modo, lasciando che Hypermnesiac entrasse a piccoli bocconi tra i miei ascolti quotidiani, facendo riemergere -proprio come suggerisce il titolo- in quell’eccesso di rievocazione mnemonica, rimandi e salti temporali di cui spesso di preferisce evitare il contatto di ritorno. Ed anche se in alcuni episodi ho faticato, vedasi le recrudescenze di Tom’s Still Waiting, è innegabile come alla fine emerga quasi naturalmente, la ficcante critica all’uomo contemporaneo, una mutazione (o involuzione sociale) dell’uomo monodimensionale predetto da Marcuse, tra ciechi apici di post-verità ed improbabili proiezioni ideali della propria immagine. Musicalmente c’è una logica integerrima durante tutto Hypermnesiac, che culmina nella finale suite di Ten Thousand Miles Longer, ove tra risacche alla Cure the Pain, vagiti jazzistici e qualche folata ambient, si realizza un contraltare imperfetto verso quella che era in chiave rock A ten thousand miles long suicide note contenuta in Quantum Porn.

E’ nel conflitto che questo disco si infiamma, nel contrasto e nell’intrarelazione tra l’uomo e le sue più recondite paure, vedasi appunto il finale shock di Film. Hypermnesiac (ascoltabile qui su bandcamp) si aggiunge alla lista di quei dischi che non asseconda le voglie dell’ascoltatore, anzi ne mette alla prova i limiti, lo spinge a pretendere di più, lo incita ad una maggiore attenzione e cura nell’ascolto, senza tuttavia obbligarlo a panegirici sonori. Che sia forse l’ennesima sfida del rock postu-umano e post-salvifico, quella di forgiare un’ élite di ascoltatori, come definitivo spartiacque dall’utente fagocitatore di streaming? Non lo so, ma vorrei poter ascoltare più dischi come questo, vorrei essere messo alla prova più spesso…

The Somnambulist sito ufficiale
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recensito da Poisonheart

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