Full Moon – Riverweed

Una terra di fiumi color inchiostro, di argini verde smorto, di campi coltivati che si colorano solo d’estate quando nebbie e grigiore vanno in vacanza: eccovi nel “ricco nordest”, nell’entroterra trevigiano più precisamente, ove i Riverweed vivono e prosperano. Il duo chitarra e batteria (rispettivamente Alessandro Cocchetto e Filippo Ceron) riscaldano la tiepida scena musicale locale con una combo interessante di garage ruvido mischiato ad un blues che ritorna alle origini, quelle del Delta e dei canti sofferti durante i lavori nei campi. E se di parallelo si può parlare, certamente il richiamo della natura ed il contatto che si fa sempre più flebile con l’uomo, rappresenta l’anima pulsante di Full Moon, un esordio costipato di sonorità scarne, dure come zolle terra estirpate dal terreno, eppure così intrise di passione e di briciole di vita vissuta. Ovvio, quando si parla di un duo chitarra-batteria i paragoni recenti (e meno recenti) a quei soliti nomi della musica mainstream sono palesi e probabilmente banali, poiché nei Riverweed risiede uno stile viscido, che si slaccia dalle logiche di una chitarra baritona ricca di effetti che colma le mancanze di tonalità basse o di una batteria squillante che si lancia in acuti sghembi atti a colorare le solite ritmiche blueseggianti. Spesso nei Riverweed è possibile apprezzare lo sforzo di uscire dagli schemi, proponendo fraseggi blues senza per forza intestardirsi a ritoccare eventuali lacune, il passo felino della loro musica è ammaliante in un’essenzialità che è perfetta così com’è.

Full Moon - RiverweedIl legame con la natura, prima sottomessa al grigio cemento e poi oggetto dell’umano senso di colpa, trova in Full Moon una dimensione sincera, rimembrando nelle esperienze dell’infanzia quella genuinità che da adulti si perde via troppo facilmente. The Mole dapprima è il brano che t’aspetti, una chitarra “fuzzosa” che spesso si lancia in parabole soliste ed una batteria che fedele la segue in capo al mondo, eppure il retrogusto blues nelle parti strumentali non può lasciare indifferenti. Manipulate Me porta ad estreme conseguenze quanto sentito nella prima traccia, estrapolando enfaticamente il carattere proletario della musica nera che se ne esce rinvigorito ed attuale, regalando dinamiche elettriche e scarne allo stesso tempo.
Barefoot Blues rende ancora più fangose e fluviali le atmosfere, avanzando con una lentezza esasperata verso un racconto impastato e ricco di misticismo; la batteria ammiccante di Homo Sapiens puntualizza, qualora ce ne fosse bisogno, il messaggio critico che i Riverweed vogliono comunicare, un messaggio non necessariamente ambientalista, ma coscienzioso di due ragazzi che non vogliono privarsi del contatto con una natura verso cui sentono un legame decisamente forte. La compatta Tank, ciondola con sicurezza su di un riff portante di chitarra, sul quale la batteria cambia pelle e dinamiche; mentre la finale Flower Dust si concede una sommessa pausa riflessiva, abbassando i ritmi ed i volumi verso una ballata elettrica vagamente sixities.

Full Moon, la passione per i corsi d’acqua e per il blues sono le colonne portanti di un sound che i Riverweed difendono e proteggono dall’avanzate dei suoni digitali; il fiume Sile come il Mississipi d’un secolo fa, custodisce quel misticismo che solo i ricordi possono impreziosire. Mantenendo pura ed essenziale la propria musica, i Riverweed si fanno carico di esportare il seme blues ovunque li capiti, nella loro errante estate di concerti nei villaggi dei bianchi.

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Riverweed bandcamp

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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