Fare un disco senza concerti: il paradosso della musica emergente italiana

Ci sarebbero da fare almeno una dozzina di premesse, poiché l’argomento trattato è ideologicamente delicato ed ammette più di qualche eccezione: eppure non di rado su questo spazio di recensioni ci siamo imbattuti su buone band emergenti che sfornano singoli, ep e dischi, li distribuiscono su tutte le piattaforme digitali, sono piuttosto attivi sui social; ma non riescono a trovare più di una decina di date per suonare dal vivo. Un paradosso!

A prescindere da quanto grande sia il  calderone della musica emergente (trasversale nei generi e non sempre ben distribuita lungo l’intero stivale), il comune denominatore dovrebbe essere  la passione, quella che non si può spiegare o raccontare a parole, che appartiene ad un bisogno di comunicare in maniera artistica, irrazionale, poetica. La recente ribalta di alcuni generi (oggi indie-pop e trap) ed il loro successo tra le generazioni più giovani, ha portato ad una rapida saturazione del mercato musicale indipendente, con una concorrenza che spesso premia chi può disporre di maggiore disponibilità economica ed organizzativa. Etichette indipendenti ed agenzie di promozione sono risorse fondamentali per la musica emergente; molto spesso homemade ed autogestite, queste entità possono garantire un discreto bacino di distribuzione e diffusione per un disco d’esordio, in un nuovo passaparola digitale che spulcia pazientemente tra centinaia di contatti: dalla stampa musicale alle webzine, attraverso entusiastici comunicati stampa ed aggiornamenti vari.

registrare un discoTuttavia il mio discorso non vuole sindacare sulla presunta onestà o qualità della musica emergente, piuttosto sono interessato ad evidenziare come e con quali aspettative molte band diano inizio ad una carriera musicale. Ricordando che fare musica con una buona attrezzatura ha dei costi non trascurabili, investiti a fronte di nessuna certezza sul futuro -ovvio pegno da pagare per la vita d’artista-; tuttavia la prospettiva devia leggermente dinanzi alla possibilità di registrare un disco. Parliamoci chiaro, oggi sono sufficienti un paio di programmi di editing musicali, una discreta inclinazione nel registrare ed un minimo di strumentazione: autoprodurre un disco è relativamente facile (sulla qualità possiamo discuterne!), considerando l’imbarazzo nella scelta delle piattaforme streaming per condividere e far ascoltare la propria musica fuori dalle mura domestiche. Se registrare un disco è quindi possibile anche a costi molto contenuti (fermo restando un minimo di competenza in materia ed una discreta dose di “orecchio” per l’editing), meno entusiasmante è distribuire i propri brani. Le varie piattaforme nate a questo scopo (mi riferisco particolarmente a SoundcloudBandcamp), sono anch’esse sature di band emergenti che mettono a disposizione la propria musica, che nonostante la ghiotta vetrina, rimangono sempre con pochi ascolti complessivi (difficile arrivare a qualche migliaio per un disco), destinati perlopiù ad amici e conoscenti, o a quei pochi blogger che prima di recensire ascoltano per intero il disco. Se lo streaming non paga (in tutti i sensi, men che meno il colosso Spotify), meglio affidarsi all’attività concertistica, unica e vera “palestra” per ogni artista che si rispetti. 
Purtroppo anche qui la situazione non è sempre delle più rosee: suonare in giro per locali assume le sembianze di una vera e propria elemosina, costringendo molte band a garantire al gestore un minimo di presenze, o peggio di consumazioni (il famoso “ma quanta gente mi porti?“). Speculazioni che di certo non fanno bene alla musica emergente, visto e considerato che sono rarissimi i locali che retribuiscono i musicisti per le loro performance, che con quei pochi spicci -è risaputo- riescono a malapena a coprire le spese sostenute. Dei diritti d’autore sorvolo volutamente (la diatriba SIAE – Soundreef di qualche mese fa, ad esempio), poiché -strettamente per la musica emergente- stiamo parlando di poco più di briciole. 
musica emergenteA guerreggiare in questo arido campo concertistico, ritornano -come orde di barbari- le cover band, che nonostante vivano le medesime pene delle band emergenti, possono contare sull’entusiasmo di un pubblico distratto e generalista, ma che riempie i locali ed i bicchieri.
La musica emergente ed originale sembra quindi essere una causa persa; e lo sarebbe per davvero senza l’immenso lavoro sottotraccia delle etichette indipendenti e di alcuni promoter anti-sistema. I (piccoli e grandi) festival indipendenti estivi, sono il lumicino di speranza per molte band; il biglietto da visita per farsi conoscere ad un pubblico più ampio rispetto a quello dei singoli e sparuti concerti. Tali considerazioni (alcune delle quali vissute in prima persona) fanno mestamente parte della selezione naturale in un mercato musicale fortemente competitivo, la cui bolla (qualitativa nel caso dell’indie e delle etichette indipendenti) si è gonfiata a dismisura negli ultimi diec’anni, e non tarderà a scoppiare, ora che il mainstream sembra molto più vicino.

Ecco che a questo punto, sento in lontananza i tuoni di chi afferma che almeno vent’anni fa, le cose erano diverse! Dalla tecnologia, ai social, passando per condivisione, streaming e peer-to-peer, lo scenario era più spoglio ed analogico: registrare un disco non era il punto di partenza, ma bensì l’epilogo di un percorso nato anni prima e costellato di concerti su concerti, di casettine inviate a qualche talent scout conosciuto tramite il passaparola, a qualche fanzine underground, al sacrificio e a quel modo di vivere la musica che oggi si è indiscutibilmente sbiadito. Non è questione di nostalgia o di revisionismo musicale, si tratta di un diverso approccio nel reperire ed ascoltare musica: ieri si usuravano quella manciata di vinili o cassette a suon di passaggi, oggi con pochi clic si ha una libreria musicale ai propri piedi -ma la pigrizia di scegliere, porta l’utente medio ad ascoltare sempre le solite canzoni che già conosce-. La musica emergente deve quindi per forza adeguarsi: se fare un disco è indiscutibilmente il primo passo, le migliori energie devono essere spese nell’attività concertistica e di distribuzione (non ha importanza con quali esiti), poiché solo suonando dal vivo e dinanzi ad un pubblico si possono affinare quei dettagli decisivi per fare il salto di qualità e quindi distinguersi dalla massa e dalla concorrenza.

Quindi non vale più la pena far musica? Assolutamente no, quella tanto agognata passione viene prima di tutto ed alla lunga vince sempre (romanticamente e di riflesso  ha fatto pure tramontare l’egemonia dei talent-show, apparente scorciatoia a tutto al mondo della musica), fa sopportare qualsiasi sacrificio, a patto che sia viscerale, folle, endemica. Far musica è un’esigenza, uno stimolo per andare avanti, non un mero passatempo del dopo-scuola; solo alzando la qualità della proposta il movimento emergente ed indipendente potrà sopravvivere, nonostante l’entry-level del disco e la scarsa originalità degli esordi. Ribadisco da anni, quando me lo chiedono, che anche in Italia c’è ottima musica emergente, ma bisogna cercarla, scovarla con pazienza e perseveranza, senza farsi mitigate da facili recensioni o critiche positive di qualche rivista o blog autorevole. Se il vantaggio della tecnologia è facilitare l’imprinting con la musica e quello dello streaming è accedere a qualsiasi artista indiscriminatamente, allora sfruttiamo questa possibilità per approfondire quei generi e quelle band più meritevoli; perché l’indie o la trap passeranno, ma la musica emergente ed indipendente resisterà nonostante l’accessibilità di fare un disco mediocre e la frustrazione di suonare davanti a cinquanta persone.

La Firma: Poisonheart

 

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