Ep ending – Candybag

Spesso leggo in vari blog (più o meno autorevoli) una critica sprezzante verso la piccola comunità indipendente nostrana, composta da fantomatici cantautori con la missione di raccontare una generazione (non ha importanza quale) con un no-sense ed un distacco disilluso da spezzare il cuore. A me personalmente di queste critiche non importa molto, poiché se abbiamo una piccola scena indipendente italiana, dovremmo cercare di salvaguardarla e non stroncarla per qualche impressione volutamente troppo naif da parte di egocentrici e volubili blogger.
Ad ogni modo chiusa questa inutile premessa, tra quei “fantomatici” cantautori potremmo metterci senza dubbio Vincenzo Adduci, ed il suo progetto Candybag, che si prende la briga di rispolverare atmosfere power-pop sixities e di incastrarle con il piglio sognante della musica leggera italiana. Un bellissimo ed originale esperimento, che non gliene frega niente di essere indie al 100%, e che anzi prende tutto il coraggio possibile per diffondere quell’aura positiva, forse un po’ bacchettona, ma anche tanto genuina della tradizione dei cantastorie italici.
Tuttavia Ep ending non è un disco celebrativo di un genere musicale; dentro c’è il seme della contemplazione e dell’osservazione di un mondo esterno che fa a cazzotti contro una spiccata e critica interiorità, svelando le fragili dinamiche dei sentimenti e dei materialismi che accompagnano questa generazione.

EP ending - CandybagCosì accanto a melodie ricche di veloci pennate di chitarra e di arrangiamenti riconoscibili nella tradizione pop, sopravvive un cantato pulito, delicato e ben impostato, eppure anche così distaccato, come lo deve essere un osservatore esterno. Durante l’ascolto delle otto tracce ci si scontra con piccoli intramezzi, brevissimi stacchi sperimentali, come a rimarcare che un’anima fondamentalmente alternativa non muore mai.
Piccolo Ingombrante è un succoso brano pop che contiene la summa del messaggio di Ep ending, il tutto condensato nel passaggio: “Io cerco un’altra identità, dimensione fisica“; il tono confidenziale e libero da artifici, lascia spiazzati per quel arcigno rifiuto della “materia” mentale a favore di un materialismo (fisico e di pensiero) che spoglia di qualsiasi enfasi una realtà circostante, che assume diverse pose a seconda da che altitudine la si guardi. Il brano scivola via leggero, grazie a melodie di facile presa, lasciando scoperto il nervo di un ipercriticismo ben mascherato.
La voce e la chitarra di Vincenzo Adduci si fanno aiutare durante tutto il disco dal basso Giuseppe Porciello e dalle percussioni di Francesco Franzese, così come in Tutti i Lunedì, la sei corde addizionale di Marco Perrone colora di una chiara celeste nostalgia un brano sensibile eppure sottopelle così spietato ed impavido (“Non importa se anche l’amore c’è, mi masturbo“).
Violini anche per me, abbandona il cristallino pop sixities per abbracciare dinamiche più cupe ed elettriche, complice un basso bello presente ed un cantato tenebroso. Anche qui l’amore viene deframmentato nelle sue mille componenti materiali, e attraverso metafore musicali, Candybag, svela un leggero malessere ed una rediviva presa di coscienza verso una realtà che non ammette sconti: “È che la nostra musica non cambia come nei film“. E’ l’esigenza della materia, è l’espressione massima della praticità che muove il pensiero di questo disco, nel quale non vi è posto per teorie o facili illusione.
L’andatura lenta e sensuale di Primadipartire, lascia qualcosa d’agrodolce in bocca, complice echi lontani di violini (Ettore Napolitano) e i cori in background su cui spicca la voce di Simona Esposito; i toni salgono con Preservativo per il cuore che rimarca senza troppi giri di parole il concept del disco, un cantato di scuola genovese squilla freschissimo su di un tessuto melodico arpeggiato e brillante.

Che Candybag sia un cantautore con velleità di messaggero generazionale poco ci importa, il suo Ep ending è un manifesto di lucida ed attenta indifferenza che ben maschera una volontà di scavare oltre la prima scorza dura, per accedere finalmente al cuore delle cose, indagando fitto fitto sui sentimenti come fossero reperti archeologici rarissimi. La riscoperta della scuola cantautorale degli anni ’60 è sicuramente il fiore all’occhiello di una produzione e di una stesura dei testi davvero notevole e sopra la media, che dovrebbe far riflettere quei sedicenti blogger che (forse) poco conoscono la “materia” musicale e la sua pratica.

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recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

 

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