Depression Cherry – Beach House

I Beach House sono forse una delle band che hanno meglio interpretato il concetto di dream-pop moderno, collezionando sonorità eteree e sospese che prendono la parvenza ideale dei Cocteau Twins e la mescolano con slide-guitars, organetti e synth dalle modulazioni spaziali.
Dalla biografia piuttosto austera di questo duo, si riconoscono Victoria Legrand “mente” melodica dei Beach House, nata a Parigi ed aspirante attrice di teatro, che nel 2004 emigra a Baltimora ove incontra Alex Scally, falegname con il pallino della composizione. Ne nasce un progetto vagamente vintage e costellato di una ricerca armonica diretta e sognante, nel quale gli arazzi sonori delle tastiere dilatati nel tempo assumono atmosfere eteree e sospese. Prima con Carpak Records, Devotion (2008), poi il successivo -per Sub Pop Records- Teen Dream (2010) fissano i canoni del dream pop 2.0, portando all’esasperazione il magnanimo slow-core dei Beach House e fissandolo entro uno schema compositivo danzante da camera. Arie magistralmente interpretate con passione ed enfasi da Victoria Legrand (e forse un po’ ce l’ha nel DNA, dato che è nipote del compositore francese Michael Legrand), che mimano solo lontanamente a quelle di Elizabeth Fraser, risultando più pacate e sommesse allacciandosi perfettamente alle atmosfere austere ed onirico-fiabesche della musica dei Beach House.
Se Bloom (2012) è la continuazione del processo di maturazione e stabilizzazione delle loro sonorità, nel 2015 una doppia uscita rompe una calda attesa di tre anni: Depression Cherry in agosto ed Thank your Lucky Stars nell’ottobre, legano un periodo davvero prolifico ed ispirato per il duo di Baltimora, raggiungendo così la completa maturità artistica (ed una certa rispettabilità independent!)

Depression Cherry - Beach HouseI nove brani di Depression Cherry si muovono in una tela compositiva malinconica (al limite del sad-core), ma con un lato al cioccolato accattivante ed allo stesso tempo delicato. L’evocazione e la non-concezione del tempo di scuola lynchiana (di cui Victoria Legrand è profonda ammiratrice) viene raccolta con una certa ingordigia, eppure l’effetto finale manca di allegorie sonore sprezzanti e cervellotiche, riportando tutto piuttosto sul piano della semplicità, in un dialogo continuo tra synth e sezione ritmica con parentele digitali. L’agrodolce ballata sulla gioventù ed indirettamente sulla dilatazione del tempo (On the bridge levitating cause we want to / When the unknown will surround you /There is no right time) Levitation, apre con una scalata d’organetto intrisa di eco: la voce di Victoria Legrand assume pose evocative, mentre di rimando è rincorsa da quella di Alex Scally persa nell’oblio dei livelli armonici. Sparks invece calca una melodia gretta con chitarre strappate, vincendo una tensione endemica che sale fino a toccare il climax indolente di un cantato vichingo; eppure l’apice del disco arriva con la melancholica Space Song, perfetto emblema di un dream-pop equilibrato, triste e sentimentale. Composta da versi ermetici come polaroid sbiadite (It was late at night / You held on tight / From an empty seat /A flash of light) il cui tono del cantato rimane immutevole per tutto il brano, come a rimarcare la stasi emotiva di un brano che ha il sapore amaro amabile dell’addio; il tutto corredato da mosse synth frizzanti e spregiudicate nella loro asciuttezza con un finale dilatato che ripete ossessivo come un mantra modulato «Fall back in to place». Lo spacca-cuore prosegue con Beyond Love: i ritmi non accennano ad alcuna irrazionale accelerazione, mentre l’indagine dei Beach House si fa minuziosa, verso un flusso di pensieri frenato solo dalla coerenza (The last thing that she sees before they turn off all the lights /Was there, a man up in the corner with the spiders made of light).
10:37 rappresenta l’elemento minimale che mancava a questo punto di Depression Cherry, asciutto e secco, il brano è retto solo da voce ed un impersonale beat dalle pigre evoluzioni; PPP (dal termine in voga negli anni ’60 Piss Poor Planning) invece rappresenta l’esatto opposto armonico, un arpeggio saliscendi colora un certo sgomento verso quelle scelte prese senza averne avuto le giuste motivazioni. I ritmi sull’imbrunire del disco prendono forme rallentate ed estremamente rarefatte: dall’abuso degli echi in Wildflower, all’isterismo a grappoli di Bluebird, chiudendo con cori clericali struggenti in Days of Candy, come a mimare una trasmigrazione corporea in altre dimensioni (magari alla “levitazione” di inizio disco!)

Dalle stesse sessions proviene il materiale di Thank your Lucky Stars, nel quale il minimalismo si fa più feroce in altre nove tracce, accompagnato da un certo pragmatismo in bianco e nero che viene mantenuto inalterato per tutto il disco: da meditare sull’organetto ripetitivo di Common Girl e sulla cupezza scarlatta di She’s so Lovely o della potenza sghemba di One Thing.
Pensati come probabilmente un progetto unico, Depression Cherry acuisce le sfumature della malinconia con una spinta centrifuga che porta a sofferti sentimenti di devozione, manifestati con maggior respiro in Thank your Lucky Stars; questo connubio sembra essere l’opera più matura e ragionata della discografia magnifica dei Beach House.

recensito da RamonaRamone
M_Ramona Ramone

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