Death Town Dingo – Death Town Dingo

Death Town DingoEsordio in long-playing per i milanesi Death Town Dingo che ruggiscono un malessere metropolitano attraverso distorsioni ruvide, voci roche e percussioni possenti, in dieci brani abrasivi e potenti.
Nati nel 2014, i Death Town Dingo hanno trovato la quadratura del cerchio proprio durante la realizzazione del disco, attraverso il potenziamento della sezione ritmica con l’entrata definitiva del batterista Sergio Facchetti. Le dinamiche di questo esordio richiamano il grunge della prima ondata, con quel bagaglio di alienazione autentico e spontaneo che si irradia attraverso liriche esplicite che toccano le solite corde dell’isolamento emotivo e dell’incomprensione. Il mondo che gira tutt’intorno è descritto come impazzito, popolato da un genere umano ormai in decadimento, enfatizzando con particolare cura di dettagli il presente vissuto e la triste parabola discendente che ne consegue, piuttosto che analizzare le cause che hanno portato a tale condizione. E’ il senso dell’urgenza che colpisce maggiormente nella musica dei Death Town Dingo, trovando sfogo nelle soluzioni stabili e ripetitive di chitarre sporche (Carlo Gatto) e di una sezione ritmica appiccicosa (al basso Michele DeMeo) e variegata; mentre nelle vocalità metallare (Matteo Citron) si ritrova quella potenza che vive di luce propria anche quando le melodie si fanno più riflessive ed armoniche.

Senza grosse novità stilistiche, i Death Town Dingo colpiscono forte dove serve ed il terzetto di brani d’apertura dimostra come sia endemica la rabbia che il quartetto vuole manifestare: Delete your Life è un manifesto nichilista in salsa metallica, con power-chord solubili in una struttura verse-chorus-verse che giocano sulla velocità e l’intensità d’esecuzione; la successiva Fog and Cop (singolo uscito nel gennaio 2016) è un grosso pugno nello stomaco che fa esplodere tutto il proprio dolore in un chorus vibrante e sinistro (ottime dinamiche di chitarra); mentre Surfing on my soul (uno dei primi brani realizzati) è un’amara ballata Alice in Chains dipendente.
In What they Pray i Death Town Dingo tirano finalmente fuori soluzioni più personali, abbassando il tono delle distorsioni e modulando maggiormente i volumi e gli effetti, concedendo qualche briciolo d’improvvisazione fuori dai soliti schemi rock. Child potrebbe benissimo essere una hidden-track di Cantrell/Staley, i riff squillanti e dilatati della chitarra s’amalgamano bene nel tessuto ritmico caldo ed impersonale di basso e batteria. L’intro lungo strumentale di I’ll Never Let you Fall serve per aumentare la tensione disperata di una preghiera che non vuole pronunciare alcun addio; mentre i passi solitari di Say Something ovattano con enfasi aliena quei silenzi sempre ormai onnipresenti tra le persone ed i loro sentimenti. La successiva Waiting for you è la dimostrazione di come i Death Town Dingo abbiano abbandonato la cieca emulazione grunge per ricercare naturalmente la propria strada musicale, e ci riescono con grande disinvoltura e sicurezza. You Have to Go Now è una lotta intestina gutturale e baritona che non trova vincitori; mentre la chiusura spetta all’ermetica Pay (trame pazzesche di basso in sottofondo), una sorta di confessione incazzata che evita qualsiasi lieto fine, ma ci delizia con un assolo folgorante ed imprevedibile.

Un esordio all’insegna della potenza e dell’esplosività per i Death Town Dingo, che nonostante qualche dettaglio da limare (un maggiore dinamismo e qualche scossone più personale non guasterebbe) oltrepassano l’ostacolo del primo disco con una grinta seria e profonda, che non arriva dall’entusiasmo giovanile, ma bensì dalla consapevolezza che la musica può liberare dalle afflizioni e dalle barriere sociali, trovando anche un mezzo sorriso oltre tutto questo cieco e grigio decadimento.

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recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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