American Idiot – Green Day

«Don’t want to be an American idiot !»

Per molti ragazzini nati negli anni novanta la passione per il punk trova come principali guru i Green Day, dapprima simpatico fenomeno di un corporate-punk frizzante quanto la CocaCola, poi coscienti portavoce di una generazione mercificata dal capitalismo on-demand da villaggio globale. A mio avviso Billie Joe Armstrong si rivolge alla sua di generazione, predicendo una sconfitta di proporzioni simili a quella dei sognatori dei fiori degli anni settanta; nonostante orde di teenagers griffati con toppe, spille e ciuffi “strani” li abbiano eletti come paladini del new-punk.

Sicuramente American Idiot (2004) è l’album del decennio; non tanto per le vendite stratosferiche e per il successo radiofonico e commerciale. Nemmeno per il forte senso sociale con cui i 3 inossidabili kids interpretano ballate pop-rock dal sapore agrodolce. Appena ho ascoltato per la prima volta il disco, mi sono chiesto: “Ma veramente questi sono i Green Day? Finalmente sono cresciuti!”.

Sorprendente la maturità con cui la band californiana, ha confezionato un lavoro tutto sommato pop ma dagli intenti più “nobili” rispetto al passato. I connotati sono di facile lettura: un sound vigile, a tratti veloce, che sa parlare ai suoi simili in maniera schietta, come da tanto tempo non accadeva. La prima band commerciale a scatenarsi deliberatamente contro la “mamma-America”, in modi insospettabili: un rigurgito dell’11 settembre, poi diventato moda! L’amministrazione Bush sotto scacco, dopo campagne di terrore e di sospetto che hanno fatto degli USA un paese febbricitante sotto cura analgesica. Magari non c’era scampo, magari era tutto necessario (come si dice “il fine giustifica i mezzi …”), non voglio entrare in dibattiti politici revisionistici. E’ certo, che i Green Day hanno saputo cogliere quello smarrimento giovanile (forse poi mica tanto giovanile!) gettandolo tra le ortiche di un rock-pop benevolo, ma graffiante. Un epitaffio per una nazione in cerca della bussola, cinico senza infastidire, riletto poi dai giovani ascoltatori come un mal di pancia da indigestione di hot-dogs.
La bella trovata sta nella nuova dimensione di cantastorie della band, slegata dal solito concetto punk-pop-bubblegum; e le vicende di questo fantomatico punk-nerd Jimmy sono quanto meno fonte di immedesimazione collettiva. In fondo, l’America non sta cadendo a pezzi, eppure una vena di apocalisse avvolge tutti i brani come se il giorno del giudizio fosse imminente.

American Idiot - Green DayCerto, ad essere sinceri le premesse del primo singolo, American Idiot, non mostrano nulla di nuovo. Tre monellacci impossibile da prendere sul serio: la classica canzone alla Green Day, tirata, da 3 accordi ed velata di una dolce ironia. Senza sbugiardarmi, nemmeno Holiday si discosta molto dal lief motiv della band, tuttavia il ritmo tambureggiante fa pensare ad una dichiarazione d’intenti seria, nel quale si celebra, in modi forse perversi, un anti-militarismo sincero.
Boulevard of Broken Dreams è il soliloquio di Armstrong arrivato ad un sorta di crisi di maturità; manifesto di una perdita intima di ideali, la band sa mescolare un pop incisivo corretto da un feedback di sottofondo che si scontra con le delicate movenze di chitarra e un pizzico di piano. È il brano più maturo della band e dimostra come i Green Day possano essere finalmente presi sul serio. Idem per il retorico singolo di Wake me up when September ends, nel quale la guerra in Iraq è più di uno sfondo ad una storiella puerile e strappalacrime. Immagino che piaccia alle ragazzine, ma l’esercizio è secondo me forzato di troppi cliché senza radici profonde!
Are we the waiting suona come un brano da band vissuta, malinconica e teatrale senza colpa; Give me Novocaine si gusta alla stregua di una ballata alla Lennon nei suoi anni solisti: bello il gioco tra parti lente ed aggressive.
Accessibile per i giovanissimi She’s a Rebel grazie al classico slang punk (somiglia a Son of a Gun dei Vaselines, il giro di accordi è quello!), Extraordinary Girl è un maturo rock dalle movenze piccanti: innocente inno d’amore-odio!
Tralasciando le altre tracce, che più o meno fanno il verso alle precedenti, ma che servono per addensare un disco fin qui buono, passo al piatto forte che mi fa esclamare apprezzamenti d’entusiasmo che è meglio non pronunciare. Jesus of Suburbia e le sue due sorelle dislocate a metà e fine del disco: St.Jimmy e Whatsername. Ecco il valore aggiunto, il sacrosanto salto di qualità. La stessa incisività di teen-stories raccontate in Tommy, meglio di un Romeo e Giulietta in salsa punk;  parlano la stessa lingua dei teenagers di allora (oggi cresciuti!), formandoli meglio di un servizio militare obbligatorio! La chiamata alle armi avviene grazie alle vicende di questo fantomatico Jimmy, scontroso-romantico ragazzo metropolitano con la passione per il punk e con tanti scheletri nell’armadio. La rabbia adolescenziale trova sfogo, in un personaggio aggrovigliato e chiuso in se stesso, un “odiatore” senza memoria. Alleato ideale ai giovani costretti a combattere per raggiungere la maturità o la fede, qualsiasi essa sia!

I Green Day sono stati bravi, bisogna essere obiettivi, c’è chi li idolatria e chi li detesta; tuttavia il valore di questo disco non si discute: nessuno nel decennio ha saputo parlare ai giovani meglio di così!

recensito da Gus
Gus heartofglass

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