Zen Arcade – Hüsker Dü

La stagione del punk hardcore è stata una della più interessanti e variegate del panorama musicale americano dei primi anni ’80. Tematiche vicine, come mai prima, a tutti quei giovani “underdogs” senza prospettive future e con il peso di un’austerità economica, sociale e corporativa creata a tavolino decenni prima per contrastare il movimento hippy, vissuto paradossalmente dai genitori di questi adolescenti alienati sotto il governo Reagan.
Una musica violenta, maledettamente sincera, sputata col sangue (ricordo come i concerti di Black Flag o Dead Kennedys spesso si concludessero in risse): tutto magnificamente “hard”.
Quindi capite bene come una band che preferisca mettere l’accento sull’aspetto più emotivo e generazionale (il “core” appunto) senza giungere a compromessi in fatto di carica generazionale sia un fatto di per sé originale. Gli Hüsker Dü per tutta la loro carriera hanno fatto questo: fare del meraviglioso hardcore ed influenzare migliaia di giovani americani di provincia con temi molto vicini alla difficile vita di tutti i giorni (senza il manierismo politico dei Kennedys o il nichilismo di Black Flag).  Tutto ciò è subito palese, anche per un neofita, durante l’ascolto di un qualsiasi disco degli Hüsker Dü, dalla struggente Diane di Metal Circus (1983) all’ultimo grande capolavoro di Warehouse: Songs and Stories (1987): la qualità, la passione e la tenacia del trio non scade mai nel cliché del tanto rumore per nulla.
A Minneapolis ben presto si crea una piccola ma sentita scena underground anche grazie anche alla Twin/Tone che mette sotto contratto i Replacements (più collage-band che punk-hardcore); tuttavia è la californiana SST (l’etichetta regina del genere hardcore, fondata da Greg Ginn chirarrista e mente dei Black Flag) che nota gli Hüsker Dü e li mette sotto contratto.

Zen Arcade - Hüsker DüZen Arcade (1984) è per molti il capolavoro assoluto della band; 23 canzoni miscelate in un doppio disco dal sapore di concept (epopea di un giovanotto che scappa dalla sua città, provando diverse esperienze, dalla droga, all’amore, alle sette religiose); un’eccezione che nel sottosuolo hardcore  non può passare inosservato.
Tuttavia nel corso della propria carriera, gli Hüsker Dü hanno sempre mostrato una certa propensione ad una libertà espressiva e morale che travalicasse i confini a volte rigidi (dettati forse più dalle esigenze del pubblico, che dalle band stesse) del genere punk. Di concept generazione non vorrei soffermarmi più di tanto, in quanto credo che questa definizione sia molto forzata.
Zen Arcade mostra il talento compositivo di Bob Mould e Grant Hart, attraverso fugaci incursioni di chitarra (preferendo l’incisività dei riff rispetto a pennate pesanti di power chord) che emergono da una tessitura ritmica (il basso di Greg Norton si può riconoscere indistintamente in ogni brano: magnifico!!!) molto compatta e perniciosa. La velocità d’esecuzione (gli Hüsker Dü nel 1984 sono la band più veloce del pianeta) non spazza mai via l’attenzione dai testi e dagli slogan perforanti come proiettili; dall’amicizia alla droga, dall’alienazione adolescenziale all’amore altrettanto struggente. L’alternanza di brani istantanei in tipico stile hardcore (alcuni tuttavia solo strumentali) e di brani più costruiti rende il disco dismogeneo o se preferite più dinamico; senza velleità di doversi per forza legare al brano successivo e senza alcuna retorica pomposa che spesso fuoriesce dalle opere-rock. Se proprio vogliamo parlare di concept, Zen Arcade lo è nelle intenzioni, ma non nella forma (nonostante il doppio lp).
Something I Learned Today è il tipico inno punk intriso con nero inchiostro di tutte quelle indecisioni giovanili che rendono anche bello l’esercizio dello sbagliare nella vita. Un’intro maculata di basso ed una chitarra acida che colora le ritmiche all’ombra di una batteria epilettica, sono il marchio di indelebile della musica degli Hüsker Dü, che in meno di due minuti riescono a ricamare un brano ricco di energia e che sa smuovere qualcosa dentro di chi lo ascolta. Nel finale, l’arpeggio distorto della chitarra di Mould ci fa capire che l’approccio degli Hüsker Dü è diverso, c’è un’arte affascinante dietro, c’è un cuore che pulsa! Così Broken Home Broken Heart nasce e muore allo stesso modo, rendendo così l’apertura del lato A molto granitica; tuttavia il primo strappo lo possiamo già sentire con Never Talking to you Again; una ballata acustica che pur spogliata di tutto il groove alcalino del punk mantiene un mantello indipendente e vagamente anarchico.
Chartered Tips supera i tre minuti e mostra come gli Hüsker Dü siano eccelsi musicisti, confezionando un brano dalla struttura omogenea e compatta, il basso di Norton passeggia con passo felpato lungo tutto il brano, mentre la voce roca di Mould rende il brano livido e disperato, specie nelle parti nel quale le sue urla soffocate sembrano al limite dell’asfissia: uno dei migliori brani degli anni ’80. L’anima hard esiste e prende il nome di Indecision Time, un ruvido epitaffio al nichilismo; mentre tutta la fantasia musicale della band chiude il lato A con Hare Krsna collezionando una ricchezza di suoni e colori che difficilmente potremmo apprezzare in altre band punk.

Il Lato B invece gioca sulla tensione e piazza un terzetto Beyond the Threshould, Pride (sull’amicizia ma anche sull’omofobia) e I’ll Never Forget you che lascerebbero spiazzato e martoriato qualsiasi veterano ascoltatore. Una disperazione ragionata gioca sulla velocità dei ritmi e sulle litanie giovanili. Dal sapore più indie invece è What’s Going on (inside my head) che sembra rubata dal repertorio di qualche band rumorosa della costa newyorkese (lascio a voi indovinare di quale band si tratti!!!), ma che poi vira verso un approccio addirittura rock ‘n’ roll (da notare il piano suonato alla Jerry Lee Lewis, appena percettibile fuori dal rumore generato dalla chitarra), per chiudere finalmente con un’isteria coatta intrisa di furore, urla e hardcore. Da citare Standing by the Sea, non tanto per i sottofondi marini con cui si apre il brano, ma piuttosto per la maniera più emozionale e ragionata con la quale la band si espone, e poi che dire di quel maledetto basso le cui movenze s’attaccano al cervello per non lasciarti più …?!

Il terzo lato del disco apre con Somewhere, ballata punk 77 non proprio originale di per sé, ma che contenuta in Zen Arcade risalta per la sua facilità d’ascolto. One Step at a Time si concede un giro di pista lungo il turbine wave (no o new che sia!), la piroetta dura meno di un minuto, quanto basta  per aprire la strada all’eterea e lisergica Pink turn to Blue (non a caso si parla di droga), il brano forse più pop del disco ma che mostra ad esempio nella forza di un assolo pre-grunge quale sia lo spessore degli Hüsker Dü. Bella pure Newest Industry (molto vicina alle sonorità degli amici Replacements), come inconfondibile è Whatever al quale è impossibile non lasciarsi andare in un coro assieme a Bob Mould quando esplode in:

Whatever you want
Whatever you do
Wherever you go
Whatever you say

Penso che sarebbe di nuovo bello (solo per un attimo per carità!), avere di nuovo diciotto anni.

L’ultimo lato del disco ospita esperimenti sonori e jam improvvisate. Se Turn on the News tra chitarre acide e batterie scatenate fa la summa di un disco capolavoro, Reoccurring Dreams (ripresa da Dreams Reoccurring presente per un breve segmento a ritroso nel lato A) si congeda all’ascoltatore con una jam hardcore a tratti evanescente ma che funge da camera di decompressione dopo un doppio disco di questa portata.
Dire che Zen Arcade sia il picco della discografia degli Hüsker Dü è come minimo una bestemmia, in quanto i loro lavori rimangono sempre di una qualità eccelsa seppur a volte sentano l’esigenza di allontanandosi dal punk. Ed anche quando nel 1986 abbandonano la SST per la Warner con Candy Apple Grey, la libertà compositiva e la sincerità della proposta non subiscono alcuna incrinatura nonostante l’approdo ad una major . Consiglio anche l’ascolto di Warehouse: Song and Stories (Ice Cold Ice non può che lasciarvi a bocca aperta!), l’ultimo grande capitolo di una carriera a mio parere favolosa e che ha influenzato (anche se mai dichiaratamente!!!) tutto lo sporco underground degli anni ’90. Epocale!

Ascolta Zen Arcade qui

recensito da Poisonheart
Poisonheart hearofglass

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