Yankee Hotel Foxtrot – Wilco

Oh, I sincerely miss those heavy metal bands
I used to go see on the landing in the summer
Mi chiamo Camilla e racconto della musica che riposa nel fondo della mia anima … e la condivido con voi …

Nati a Chicago ove pulsava il blues, alzando al loro passaggio la polvere secca del folk, e rivisitando insieme a Billy Bragg gli ultimi lasciti del maestro Woody Guthrie, i Wilco sono stati probabilmente una delle band più geniali e controcorrente degli ultimi quindic’anni. La loro musica così passionale ed erudita, ha trovato terreno fertile facendosi largo tra il rumore masticato di fine anni novanta e la latitanza di idee del decennio successivo: Yankee Hotel Foxtrot (2002) si inserisce in questo contesto con una semplicità ed un’armonia che sono disarmanti.
L’istrionico talento di Jeff Tweedy e l’imprevedibilità stilistica di Jay Bennett trovano il perfetto sfogo per questo piccolo capolavoro che la Reprise (l’etichetta che aveva pubblicato l’interessante Summerteeth, 1999), rifiutò di rilasciare, poiché segnava un ulteriore e non convincente strappo alle sonorità folk degli esordi, verso ballate più articolate e pop. La band, rimasta orfana anche di Jay Bennett, comprò i masters dall’etichetta, sciolse il proprio contratto, e dapprima distribuì il disco gratuitamente in rete, prima di firmare finalmente con la Nonesuch e di pubblicare l’anno successivo. A dimostrazione di come i Wilco credessero ciecamente in Yankee Hotel Foxtrot, preservando la loro indipendenza anche di fronte a mille ostacoli e vicissitudini in studio.

Se in Summerteeth si percepisce già un certo cambiamento in seno alla band, con Yankee Hotel Foxtrot la trasformazione è completa, abbracciando sonorità vagamente pop ma slacciate dalla logica commerciale; arrangiamenti sontuosi e delicati, verso ballate aspre e riflessive, che non disdegnano qualche arrampicata armonica verso una musica cantautorale depurata di qualsiasi retorica. Jay Bennett avrebbe preferito un approccio più progressivo, lavorando di fino su ciascuna traccia in modo da conferire una linea precisa al disco; al contrario Jeff Tweedy avvertiva l’esigenza di puntare maggiormente sui testi, tralasciando qualcosa nella fase di composizione: lo strappo non venne ricucito nemmeno da Jim O’Rurke (già con i Sonic Youth) in studio, inevitabile la decisione di Bennett di mollare.
Wilco - Yankee Hotel FoxtrotIl disco la cui copertina ritrae il complesso di Marina City di Chicago, apre sinuoso con I am trying to break your heart su dinamiche che t’aspetteresti dai Wilco: chitarre rarefatte che si muovono su più livelli, mentre in sottofondo tastiere e basso si muovono con una delicatezza fanciullesca, lasciando ad effetti vari ed un petulare jazz di batteria a riportarci  a terra con i pensieri. Una sorta di malinconia stralunata riecheggia lungo tutto il disco, eppure durante l’evoluzione dei brani non è difficile imbattersi in fraseggi melodici che prima non appartenevano alla musica dei Wilco; così proseguendo si approda a Kamera, brano intimo che spoglia ogni velleità pop (I need a camera to my eye / To my eye, reminding / Which lies have I been hiding) nonostante i ritmi ondeggianti dicano il contrario. L’oblio di Radio Cure si materializza come un baleno, mentre la chitarra squillante di Tweedy e le tastiere di Leroy Bach splendono in War on War e nel suo ripetersi ossessivo.
Se i primi quattro brani mostrano una non-linearità (come forse predetto da Bennett), ecco che in Jesus, etc. tutto viene stravolto, in una calda empatia malinconica che esplode in un chorus profetico (il brano è stato registrato molto prima dell’11 settembre), mentre Tweedy sembra consolare Gesù con parole rassicuranti, mentre tutt’intorno è avvolto dalla decadenza:

All buildings shake
Voices escape singing sad sad songs
Tuned to chords strung down your cheeks
Bitter melodies turning your orbit around

La successiva e struggente Ashes of American Flag rimarca con un filo di voce il tema conduttore che lega tutti i brani di Yankee Hotel Foxtrot; le aspettative mancate e la delusione da esse generata che porta inesorabilmente ad una cascata di piccole bugie e grandi menzogne a cui, alla fine come tragico epilogo, tutti finiscono per credere (All my lies are always wishes / I know I would die if I could come back new).
Una tra le più amate dai fans è certamente Heavy Metal Drummer e quel suo incalzare mezzo brit-pop mezza ballad anni novanta, in cui la nostalgia per un’epoca che non c’è più è straziante ed incontrovertibile; segue la tenebrosa I’m the man who loves you e la sua evoluzione beatlesiana; deliziosa pure negli arrangiamenti Pot Kettle Back, mentre in Poor Places i volumi si abbassano ulteriormente verso un’evocazione di fine disco che colora i pochi spazi lasciati bianchi dai Wilco.
Difficile trovare simile ricchezza ed placida armonia in un disco come questo, 11 brani (compresa la nenia dilatata di Reservations) che suonano sempre freschi e solari, nonostante la confusione ed tensione che ne ha portato alla realizzazione; Yankee Hotel Foxtrot tuttavia non è un disco che cattura al primo ascolto, è un lavoro che va sedotto e conquistato con sensibilità e pazienza, ma che sa regalare emozioni che altri dischi dello stesso periodo non hanno mai, nemmeno lontanamente, manifestato.

recensito da Camilla
Camilla heartofglass

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