Who’s Afraid of the Art of Noise – Art of Noise

Truzzi di mezzo mondo, rendete grazie agli Art of Noise, se la domenica pomeriggio (guarda Gus che alla domenica ormai non si fa più!) o il sabato sera vi scatenate in ballrooms affollate di gente griffata e di sudore. Inutile che m’illudo, la discoteca è solo un luogo per rimorchiare, ove la musica è un fastidioso sottofondo (mica tanto sotto!) di baccano zeppo di campionamenti copiati dagli anni ottanta!
Volete una dimostrazione?

Dietro la sigla Art of Noise si nasconde un burlone che di nome fa Trevor Horn coadiuvato da una moltitudine di ingegneri del suono con il pallino per la sperimentazione, Dudley, Jeczakik e Langan. Ok, nomi non certo altisonanti che giustamente lasciano fumettisticamente tante nuvolette con punti interrogativi, però se vi canto il ritornello di Video Killed the Radio Star? Già, Horn è il papà del primo videoclip trasmesso sull’allora cool MusicTeleVison.

L’essenza primigenia degli anni ottanta è secondo me contenuta in questo veggente Who’s Afraid of the Art of Noise (1984), che inaugura una serie di suoni sintetici che saranno ripresi nella prima techno firmata anni novanta. Un album la cui importanza non deve essere circoscritta nell’ambiente stroboscopio delle discoteche, ma che serve da cartina tornasole per l’intero synth-pop che già scalpitava nelle charts inglesi. I campionamenti così luminosamente proiettati nel futuro non trovano riscontro con nessuna produzione del passato, al massimo qualche reminiscenza con pionieri come i Kraftwerk, ma molto forzata. Trip-hop, groove che saranno esportati poi dai Run DMC, suoni metropolitani che sembrano usciti da N.Y. ma che invece appartengono alla quella Londra che solo un lustro prima era in preda ad orde incontrollabili di punk e teppistelli col chiodo.

La new-wave in questo caso è rimasterizzata a favore di una virata decisa verso un funk-dub perentorio, infarinato da un delicato jazz che suona quasi eretico ed un pop crittografato senza pietà. Questa in poche parole è Beat-Box manifesto rumoroso e piccante degli Art of Noise, e non fa che dilungarsi in 8 minuti di pura innovazione elettronica che non trova precedenti in altri campi. Dicesi arte, giovincelli!
Close (to the Edit) mette le basi per una futura techno progressiva in salsa anni ottanta, ascoltando oggi i campionamenti sono grezzi e sghembi, ma ricalcano perfettamente l’atmosfera dell’epoca, e se pensiamo che i Depeche Mode dei primissimi esordi suonano oggi piuttosto ridicoli, allora ci è chiaro di quale caratura stiamo parlando.

Who's afraid of the Art of Noise - Art of NoiseUna musica progettata da studio, leziosa e perfetta come se venisse da un enorme computer (ed in effetti nel 1983 i computer dovevano essere di dimensioni mastodontiche!),  merito della ricercatezza del progetto e della parsimonia con cui vengono dosati gli ingredienti: di pasticci synth in questo disco non ne trovate! L’atelier Art of Noise è puramente artistico.
Snapshot è un simpatico siparietto elettronico-sommerso che ricorda Baba O’Riley degli Who; la title-track come del resto A Time for Fear modula e rimodella i suoni più disparati creando uno scenario veramente confuso, da celeste apnea, ma ammiccante. Immaginatevi di subire una metamorfosi kafkiana e trasformarvi in una pallina metallica da flipper ed essere sballottati ovunque tra groove sonori e luci spaziali, mantenendo sì un atteggiamento giocoso, ma nello stesso tempo cupo e pressurizzato.
Magari il titolo vi dirà poco, ma il motivo principale di Moments in Love è nella memoria di tutti, tanto che miss Ciccone lo volle suonato al suo matrimonio. Il brano nei suoi dieci minuti porta pochissime variazioni, in una lunga litania in bilico tra l’ambient più rilassante ed il chill out; calda, sensuale, evocativa, in molte canzoni r’n’b di oggi si possono trovare tracce della stessa delicatezza sintetica. Quando ascolto questa canzone penso ad un atto d’amore tra automi o robot, tanto l’enfasi è artificiale ma allo stesso tempo si percepisce una componente umana ed un cuore che pulsa.
Una dicotomia che in quest’album è spiccata e trova nella traccia di chiusura, How to Kill + Realization (secondo me una traccia unica!) il panegirico di tutta l’opera: synth-pop meccanico con licenza noise, che tutto sommato mantiene una vena commerciale venendo a pochi compromessi.

Ca…o, ma queste cose in discoteca dovrebbero insegnarvele!!!

recensito da Gus
Gus heartofglass

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