Veckatimest – Grizzly Bear

Quelli di Pitchfork se ne sono follemente innamorati, quelli della Warp Records sono convinti di aver trovato la gallina dalle uova d’oro, il piccolo universo indie-rock ha festeggiato almeno un’estate sulle note di Veckatimest, terzo disco dei newyorkesi Grizzly Bear: la verità si perde nel mezzo, un album sopra la media, con buone intuizioni verso un folk edulcorato e tuttavia ruffiano al popolo indie.

Grizzly Bear - VeckatimestSave up all the days a routine malaise: Senza scomodare teorie freudiane o scorciatoie marxiste della scuola di Francoforte, ho scoperto (mio malgrado) che semplicemente Veckatimest (Island) è un’isoletta deserta del Massachusetts, ed in questo ringrazio Google Maps che ha attutito la mia delusione delirante. Dei Grizzly Bear prima del 2009 ricordo (a ritroso) qualche bozzetto elettro-folk piuttosto crudo come il singolo Knife contenuto in Yellow House (2006), senza che questo mi abbia effettivamente sconvolta. Invece in Veckatimest, Ed Droste e compagni, ripuliscono la tavolozza dei colori, trovando soluzioni melodiche forse più semplici e scontate, ma che hanno la capacità di riempire tutti gli spazi possibili, tra arrangiamenti, cori (Victoria Legrand dei Beach House) e addirittura archi (a cura del “guru” Nico Muhly, già con Björk e Philip Glass). Una struttura armonica complessa e stratificata che ha il pregio di arrivare diretta anche grazie a ballate pop dal sapore agrodolce, come la delicata All We Ask (Muhly fondamentale in questo caso!). Pur non brillando al primo ascolto, ad eccezion fatta per la plateale Two Weeks, il disco rilascia le più diverse sensazioni: dalla cervellotica scelta di alcuni stucchevoli arrangiamenti (il latrato di Fine For Now, ricalca un qualsiasi b-side beatlesiano, periodo White Album), all’onirismo cupo e denudato di Cheerleader, ad esempio; passando per quel frivolo e smidollato indie-folk composto da barocchismi (come nella traccia d’apertura Southern Point) che lasciano sempre qualche retrogusto (piacevole) sotto il palato.

Make a decision with a kiss, maybe I have frostbite: nel cuore di Veckatimest , appare quasi superfluo il madrigale di Dory (il cui umore grottesco contraddice la sua natura scarna), eppure nel complesso del disco è forse una tappa fondamentale per apprezzare i dettagli degli arpeggi mozzati di Daniel Rossen, come del resto -lussureggiante di nostalgia- suona l’ironica Ready, Able, che cresce bene nell’outro, piazzato tra una sterminata valle di cori ed echi. E’ un questo preciso punto che un ascoltatore (finora distratto) può apprezzare l’arguzia con cui i Grizzly Bear hanno confezionato un disco intelligente, e non convenzionale dei suoi artifici pop. In About Face l’orecchio cerca di decifrare i sussulti di una melodia zoppa nella strada che conduce al mainstream, persino nella ovattata Hold Still si possono cogliere una varietà di soluzioni melense affogate in un oblio post-europeo.
Il vestito per le feste è confezionato con le percussioni secche ed affascinanti di Christopher Bear e le ritmiche liquide di Chris Taylor (che a soprasseduto alla produzione) e si manifestano splendide nella pomposa While You Wait for the Others; in I Live with you si rimarcano le sensazionali arie d’archi e fiati che abbracciano un cantato sgualcito e teatrale; mentre il disco si chiude in maniera languida e dolce con la penetrante Foreground, ultimo diamante grezzo fatto di pianoforte e tenerezza.

While you wait for the others ,to make it all worthwhile: con Veckatimest i Grizzly Bear entrano nel Gotha dell’indie moderno e a pieno merito, soprattutto grazie ad un ritrovato minimalismo di facciata, che nasconde altresì una produzione sofisticata (seppur abusando dei cori!) e ricca di tranelli e dettagli a cui è interessante abbandonarsi. Difficile tuttavia ripetersi, o bissare un perfetto connubio tra tecnica ed emotività … già, molto difficile!

recensito da Bambolaclara

 

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