Trouble Will Find Me – The National

I’m not alone, I’ll never be
And to the bone, I’m evergreen
Mi chiamo Camilla e racconto della musica che riposa nel fondo della mia anima … e la condivido con voi …

Ogni volta che si parla de The National si porta subito l’argomento musicale su un piano più elevato (quasi radical-chic, se consideriamo le palesi simpatie democratiche della band di Cincinnati), quindi di conseguenza le aspettative e la critica (sostanzialmente fine a se stessa) si fanno implacabili ed esigenti. Eppure siamo su di un livello musicale ben oltre sopra la media, già da almeno 4 album, ossia da quel Alligator (2005) che li aveva fatti notare ai palati fini (e non solo per Karen, o per quella Mr. November ispirata all’uomo del momento, Barak Obama). Poi era arrivato The Boxer (2007) e l’America tutta si era inchinata ad uno dei più bei dischi del decennio, merito di una grazia (anche se grace renderebbe meglio l’idea) melodica limpida e concreta fatta di bellissimi fraseggi di chitarra e di una ritmica corposa e molto dinamica. Con The Boxer -anche grazie al docu-film A Skin, A Night – impariamo a scoprire le venature particolari della voce di Matt Berninger, i lirismi chitarristici dei gemelli Dessner e quella freschezza congenita, ma composta, del basso di Scott Devendorf e la possente batteria (scuola Steve Earle degli Afghan Whigs) del fratello Bryan. Il tour l’anno successivo ad aprire ai R.E.M. puzza di meritata consacrazione (nonché di passaggio del testimone?!), tuttavia i National rimangono fedeli al loro stile e proseguono in un cammino musicale che nel 2010 li vede confermarsi con High Violet, tentativo -forse non compreso da tutti- di alzare l’asticella.
Accantonati progetti solisti, produzioni eccellenti (i fratelli Dessner producono Tramp di Sharon Van Etten nel 2012), i National si rimettono a scrivere ed a suonare per un disco che viene recepito positivamente definendolo dai critici di Picthfork (“their most self-referential album” sa di benedizione!): Trouble will find me è probabilmente la suma maxima di quello che la band è attualmente. Sfatando il mito per cui solitamente un lavoro ricco di collaborazioni risente in qualche maniera di un vuoto creativo, in Trouble will find me, il marchio di fabbrica dei National è saldo ed inconfondibile, nonostante partecipino sporadicamente le voci di Annie Clark (St. Vincent) e Sharon Van Etten, con  Sufjan Steven a colorare echi digitali tra synth e drum-machine, con -non ultimo- il contributo eclettico di Richard Lee Perry (Arcade Fire) a dare un tocco di imprevedibilità alle melodie.

The National - Trouble will find meCosparso da un’aura di positivismo (invisibile tuttavia ad un primo ascolto), Trouble will find me trova nuova linfa nelle liriche ed ottimi arrangiamenti, alla ricerca di quella perfezione stilistica profonda, ma sempre onesta e spontanea: con il verso d’apertura «Don’t make me read your mind, you should know me better than that» soffia cristallina la nenia di I Should Live in Salt, nel quale la voce di Berninger si rompe, parlando delle diversità caratteriali con il fratello Tom, a cui è dedicata. La vera svolta giunge con Demons, seppure al primo ascolto sfuggano via molti dettagli: gravida è la tensione di un brano, sfumato da una bella melodia di chitarra e da un basso nebuloso che preannuncia pioggia. Il primo singolo estratto coincide con il fresco divenire di Don’t Swallow the Cap, quella sua dinamica sofferta e concitata che si lega in maniera perfetta ad intrecci di armonie, aliti di archi, battiti dinamici di rullante e charleston: un testo criptico (riferimenti allo scrittore Tennessee Williams ?!), denso di sfumature ed interpretazioni elevano questo brano tra i migliori in carriera dei National. Dalle romantiche note di Fireproof You’re fireproof / Nothing breaks your heart / You’re fireproof / It’s just the way you are»), alla ballata indie-folk Sea of Love (bellissimo groove), la prima parte del disco scorre via veloce, dinamica e davvero molto pimpante.

I ritmi rallentano decisamente nella seconda parte, per farsi più intensi ma ugualmente ispirati; Heavenfaced brilla di sentimentalismo, lasciando aperte le porte per un finale inedito ove i synth rubano la scena concludendo a rilento un brano che non aveva bisogno di troppi cambi di tempo. This is the last time coincide con un riff di chitarra ed un chorus facilmente assimilabili («Oh, but your love is such a swamp / You’re the only thing I want / And I said I wouldn’t cry about it I») ed integrati da un finale evocativo, nel quale il backing vocal della Van Etten risalta per passionalità, contraddicendo il tema centrale (ovvero la routine nelle relazioni) del brano. L’isterico battito di ritmico di Graceless la rende sinistra e cupa, mentre in Slipped i ritmi si affievoliscono talmente tanto da risultare quasi fastidiosi: sono i due brani che richiedono qualche ascolto in più, ma che servono per preparare il terreno all’eterea I Need my Girl, diamante splendente che mette sul tavolo tutto quello che di buono i National sanno fare tra minimalismo e cura maniacale dell’arrangiamento!
L’incedere sostenuto dei synth in Humiliation si schianta contro un cantato secco in liriche graffianti («All the L.A. women / Fall asleep while swimming / I got paid to fish them out /And then one day I lost the job»), mentre in Pink Rabbits è un pianoforte a dettare i tempi in un brano che propone un approccio diverso rispetto a quanto sentito prima, mentre la conclusiva Hard to Find sfiora dapprima l’esercizio di stile, per poi emozionare definitivamente nella sua parte finale.

Trouble will find me potrà mettere in difficoltà con giudizi mediocri chi aveva amato a dismisura The Boxer e storno il naso con High Violet; è un lavoro che segue la strada tracciata da quest’ultimo in un evoluzione costante, propensa a migliorare il già eccelso dei National, senza abbandonarsi nell’autocompiacimento. La band di Cincinnati consolida il proprio stile, lavorando in addizione (synth ed intrecci di chitarra e basso davvero buoni), centellinando i piccoli progressi e le micro rivoluzioni nel loro sound: eh no, non è un disco per tutti!



recensito da Camilla

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